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Stampa di guerra
L’idea che possiamo farci intorno a ciò che davvero sta accadendo in Ucraina è, ormai lo avranno capito perfino gli irriducibili, inversamente proporzionale alla potenza di fuoco con cui veniamo quotidianamente ingozzati di informazioni.
Nelle “notizie” forniteci ogni giorno con dovizia di immagini (spesso le stesse di ieri, dell’altro ieri e di dieci giorni fa ma corredate da novità succulente circa il computo di morti, feriti e distruzioni) stupidità e falsità si accoppiano in ogni maniera possibile.
Leggiamo e vediamo cose talmente stupide da non riuscire neppure a giudicarle false e bugie così smaccate che a ritenerle stupidaggini si fa loro una cortesia.
Perciò non è tanto la guerra a ridurre le mie speranze a lumicino, quanto l’ipocrisia che si è in grado di spalmarci sopra per farcela ingoiare.
Uso il plurale e parlo di speranze. Ma in realtà me ne rimane una sola e non potrebbe essere più esile: che il popolo ucraino – non quel POPOLO di cui cianciano gli interventisti, che vede teneramente abbracciati Zelensky e il lavacessi, ma quell’altro che si fonda sulla comunanza di povertà e oppressione, il popolo degli ultimi che non vince mai nessuna guerra e che sempre viene massacrato – diserti in massa almeno questa.
Invece non accadrà, nemmeno dopo Bucha. Anzi, mi arrivano direttamente in bacheca i primi colpi di genio “La Pace? Mai con i criminali di Bucha!”. La stampa di guerra è in azione per trasformare anche questa, come ogni strage – di cui ovviamente non si sa e non si può sapere altro che quello che ne dice lei – in occasione per sostenere la necessità vitale di menare le mani mandando altri armamenti perché si verifichino altre succulente carneficine fino all’immancabile vittoria finale.
E’ così che funziona il sistema informativo nel mondo del mercato: si produce ciò che si vende meglio e, vendendolo, si crea nello stesso tempo quell’opinione pubblica che, ingozzata di notizie (non importa se vere, false oppure né vere né false ma solo irrilevanti) ne acquisterà in quantità sempre maggiore. Un meccanismo circolare che si auto alimenta.
Non è certo una sorpresa dal momento che l’informazione funziona proprio così, sempre, anche in tempo di pace. Il valore aggiunto dalla guerra è che adesso essa può mentire e falsificare facendosene titolo di merito.
La lettera degli undici cronisti di guerra pubblicata l’altro ieri dal Fatto Quotidiano dunque è certo encomiabile. Ma trascura appunto il fatto che il sistema dell’informazione non è “diventato” così da trenta giorni a questa parte: sarebbe ridicolo sostenerlo.
Se oggi assistiamo a questa indegna farsa mediatica è perché ne esistevano i presupposti ed erano tutti sotto i nostri occhi.
Affermare allora che “la propaganda fa una sola vittima: il giornalismo” è perlomeno ingenuo.
Il giornalismo non è affatto la “vittima” della propaganda, ne è il principale fautore. E’ la verità ad essere la vittima della propaganda messa in atto GRAZIE al giornalismo. Quello cartaceo, per il poco che ne rimane, quello televisivo e quello virtuale.
Perché un giornale, in un sistema di mercato, deve vendere notizie e siccome non tutto si vende, deve vendere ciò che ha maggiore probabilità di essere venduto. Ciò che ha mercato.
Il giornalista che vuole “stare nel mercato” deve dunque, proprio come ogni altro produttore di merci, produrre qualcosa da vendere. Qualcosa di comodo, facile da comprendere e da raccontare. La verità, essendo spesso scomoda e difficile, mercato non ne ha quasi mai. Un giornalista che, oggi, volesse essere onesto e sincero fino in fondo finirebbe al rogo. Che nel 2022 non vuol dire certo “bruciato vivo” ma certamente isolato, ridicolizzato, sbeffeggiato e del tutto screditato. E, infine, dovrebbe uscire dal mercato dell’informazione. Ma ciò avviene da sempre, la stampa di guerra non fa altro che renderlo lampante.
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