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“Sono solo un uomo che difende la libertà di tutti”: Zaki presenta il suo libro
MILANO – “Se oggi siamo qui, è per presentare il libro che Patrick ha scritto e che, da oggi, è disponibile in libreria. Siamo qui per parlare del libro, di Egitto, di carcere e libertà. Non siamo qui, quindi, per parlare delle polemiche che, da qualche giorno, si sono abbattute su Patrick a proposito della sua posizione in merito alle vicende che riguardano Israele e Palestina. Se vi interessa la sua posizione riguardo al conflitto, vi invitiamo a leggere la lettera indirizzata da Patrick a Luigi Manconi che oggi è stata pubblicata su Repubblica: lì troverete la sua posizione sul tema. In questo incontro, invece, si parlerà del libro, dell’esperienza che questo libro racconta, e dei motivi che hanno spinto il suo autore a raccontarla.” È con queste parole che si è aperto l’incontro di presentazione di “Sogni e illusioni di libertà”, libro scritto da Patrick Zaki e pubblicato da La nave di Teseo con la postfazione di Rita Monticelli, sua professoressa all’Università di Bologna. “Qualsiasi cosa vogliate pensare delle mie opinioni, siete liberi di farlo: con la lettera a Repubblica ho voluto solo chiarire quale fosse la mia posizione, ma non ho cambiato idea. Se vorrete venire a sentirmi (il riferimento qui è al Salone del Libro di Torino, dove l’invito di Patrick Zaki da parte della neo direttrice Annalena Benini ha suscitato molte polemiche), ne sarò felice; se non vorrete, siete liberi di farlo. Io accetto tutti, rispetto le opinioni di tutti. E, come tutti, ho le mie: del resto, io non sono un eroe, sono solo un uomo”.
Un uomo, non un eroe. Un giovane uomo, ricercatore all’Università di Bologna, che, per aver scritto nel 2019 un articolo dedicato alle violenze perpetrate nei confronti delle minoranze copte da parte delle autorità egiziane, si trova, il 7 febbraio 2020, ad essere arrestato all’aeroporto del Cairo e da lì condotto in una prigione di Mansoura, la sua città natale, dove rimarrà fino all’8 dicembre 2021, data del suo rilascio (ma non della sua assoluzione: per quella, occorrerà aspettare il 19 luglio 2023, giorno della grazia concessa dal presidente Al-Sisi). Fino a quel momento, quasi due anni di carcere vissuti in condizioni disumane tra torture, vessazioni, interrogatori e reiterate violazioni della sua dignità di essere umano.
Di questo lungo, esasperante, “viaggio” – è così che lo chiama Patrick – parla “Sogni e illusioni di libertà”, la prima opera del giovane ricercatore che si è deciso, a quasi cinque anni da quell’articolo che gli costò la libertà, a raccontare la sua esperienza nelle prigioni egiziane e il suo tortuoso cammino verso una normalità ritrovata.
“Il momento peggiore? Il viaggio in macchina, bendato, verso la prigione di Mansoura. Quando mi hanno arrestato, in aeroporto, non avevo idea di cosa mi stesse succedendo e nessuno rispondeva alle mie domande. Non avevo più il passaporto, i documenti, nessuno strumento con cui contattare casa. Sono arrivati degli agenti, mi hanno messo una benda sugli occhi, legato le mani dietro la schiena e fatto salire in auto. Poi, sono partiti senza dirmi dove stavamo andando. Ero spaventato, davvero spaventato. Non capivo. Non capivo cosa ci facessi io lì, dove stavo andando e perché mi ci stavano portando. Poi, quando siamo arrivati, mi hanno tolto la benda dagli occhi e ho riconosciuto Mansoura, che è la città dove sono nato. Ho riconosciuto la scuola che ho frequentato da piccolo. Quindi mi sono detto: ok, Patrick, ti hanno portato alla prigione di Mansoura e qui rimarrai per molto tempo – forse per sempre. Una cosa che ho imparato quando ero piccolo, infatti, è che se qualcuno finisce nella prigione di Mansoura, è molto, molto, difficile che torni a casa.”
“Così mi sono detto: Patrick, ti devi adattare. Devi trovare delle tecniche di sopravvivenza. Devi imparare a vivere anche in queste condizioni, devi farlo per te e per chi ti sta aspettando là fuori – in Egitto e in Italia”. Già, le condizioni. Anche di questo parla “Sogni e illusioni di libertà”: delle condizioni disumane in cui Patrick Zaki, insieme a centinaia di altri detenuti (da lui stesso definiti “meno fortunati di lui – io, se ci penso, sono stato un privilegiato in confronto a quello che ho visto: in fondo, ero pur sempre un prigioniero politico di fama internazionale. Chi non contava nulla, agli occhi delle autorità, ha ricevuto trattamenti di gran lunga peggiori dei miei”), si è trovato costretto a vivere. Notti passate a dormire per terra, senza un materasso o un lenzuolo, in mezzo agli insetti. Interrogatori che durano ore tra botte, insulti, scosse elettriche e sputi. Giornate passate senza acqua calda, un solo bagno per decine di detenuti – accessibile una volta ogni cinque giorni. Settimane trascorse nella stessa cella con decine di persone, facendo i turni per potersi sdraiare. Mesi trascorsi senza ricevere – o quasi – notizie dall’esterno. Pochi minuti di telefonata concessi, ogni tanto, per comunicare con la famiglia. “La mia preoccupazione più grande era dovuta, oltre dalla paura di non farcela, al fatto che non avevo nessuna notizia dei miei cari. Come stavano i miei genitori? E la mia fidanzata, i miei amici? E i miei compagni di università a Bologna? Sanno che sono qui? C’è qualcosa che possono fare per aiutarmi?”; troppe domande da porre in una sola, brevissima, telefonata: “Mi ero organizzato per chiamare ogni volta qualcuno di diverso: una volta mio padre, poi mio fratello, mia madre, la mia ragazza…” – è difficile stabilire dei turni quando si tratta di comunicare con qualcuno che ami.
I continui tentativi di adattarsi alla vita del carcere che, con il passare dei mesi, si faceva sempre più dura. La volontà di “crearsi una routine”. Le storie degli altri detenuti, le amicizie strette con uomini come lui imprigionati perché attivisti, difensori dei diritti umani e paladini della libertà d’opinione (detenuti con i quali Patrick, è orgoglioso di precisare, è ancora in contatto).
Le lettere, sempre più numerose, a lui indirizzate da studenti delle scuole elementari, dei licei, delle università (soprattutto italiane). Lettere che venivano recapitate tutte insieme – a volte con mesi e mesi di ritardo – e che Patrick ha letto tutte, una per una, nessuna esclusa. “Ricevere quelle righe, quelle parole e quei disegni per me è stato importantissimo. Ho sentito davvero il supporto della società civile. Ho sentito le persone, il popolo italiano, che si stringeva vicino a me e faceva di tutto per portarmi a casa. Io sono grato al vostro paese, lo sarò per sempre”.
Nel 2020, la notizia del Covid: “Ogni tanto, la sera, insieme agli altri detenuti riuscivamo ad ascoltare la radio. È dalla radio che ho appreso che in Italia la pandemia stava provocando migliaia di morti, e la notizia mi ha spaventato. Cosa sta succedendo nella mia seconda casa? Cosa accade nella mia Bologna? E soprattutto, sarà rimasto ancora qualcuno a ricordarsi di me, che riesca in qualche modo a venire a prendermi e portarmi via di qui?”. Patrick ride, fa battute, cerca di sdrammatizzare. Sdrammatizzare una situazione che di drammatico ha molto, ed è incredibile vedere con che forza d’animo Zaki si sforza di “normalizzare” la sua storia scandendo il racconto con frasi scherzose e senso dello humour. “Una volta libero, su di me ho letto di tutto: che sono una spia, che sono pagato dall’Unione Europea, dall’Italia, da non so chi, per rovesciare il governo egiziano. Che sono un terrorista, un estremista, un soggetto pericoloso. Che sono una celebrità: Patrick Zaki come Scarlett Johansson!”.
Quando però si parla del suo lavoro, e dei motivi per cui è stato incarcerato, Patrick ritorna serio. “Mi sono chiesto più e più volte cosa ci facessi, io, in prigione. Poi, ho trovato la risposta – che era sempre stata sotto i miei occhi. Chi sono io? Io sono uno studioso, un ricercatore, un attivista dei diritti umani. Qual è il mio lavoro? Difendere per i diritti umani. Come si lotta, concretamente, per realizzare questi diritti? Ecco, così. Anche così. E i diritti umani servono a questo: servono affinché nessun individuo si trovi, in qualsiasi parte del mondo, a vivere in condizioni che non rispettano la sua dignità”.
Il cuore nel suo lavoro, la parlantina sciolta, la pretesa di rivendicare – sempre – il suo pensiero: questo è Patrick Zaki. Che, tornando alle vicende di questi giorni, conclude così: “Dopo tutto quello che mi è capitato, trovarmi di nuovo al centro delle polemiche per quello che penso fa male, è ovvio. Ma io capisco che molti non siano d’accordo con me. È normale, inevitabile, quando con le tue opinioni ti discosti dalle idee della maggioranza: il tuo è un pensiero scomodo. E del resto l’ho già detto, io non voglio insegnare niente a nessuno. Io sono un uomo come gli altri, un ricercatore, un attivista dei diritti umani, e quello che faccio ogni giorno è semplicemente fare il mio lavoro, difendendo i diritti di tutti e dando voce alle minoranze che una voce, spesso, non ce l’hanno”.
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