Lavoro
Serra sbaglia: dopo i boomer, il conflitto generazionale è anche politico
In Italia, secondo una celebre battuta attribuita ad Alberto Arbasino e poi fatta propria da Edmondo Berselli, c’è un momento nel quale si passa dall’essere considerati «giovani promesse» all’essere considerati «soliti stronzi», mentre soltanto a pochi è concesso di accedere alla categoria di «venerati maestri». Ebbene, esistono persone capaci di occupare insieme – e con buona pace di Arbasino e Berselli – i ruoli di «venerato maestro» e di «solito stronzo», ambendo ancora – poiché non si lascia nulla a nessuno – a quello di «giovane promessa». Molte di queste persone appartengono alla generazione che divenne adulta negli anni Sessanta e Settanta del Novecento: i baby boomer o, come si preferisce oggi, i boomer.
Ciclicamente, quando si riaccende il dibattito sulle generazioni, al centro della scena ci sono sempre loro, e spesso son lì a distribuire bonarie pacche sulle spalle con dissimulata condiscendenza patriarcale. Questa volta è accaduto a partire da alcune considerazuionoi svolte da Michele Serra – «Perché non facciamo largo ai giovani» – sul Venerdì di Repubblica.
«I ventenni di oggi – ha scritto tra l’altro Serra – ascoltano Guccini e De André, la stessa musica dei padri e oramai quasi dei nonni; io, quando avevo vent’anni, non ascoltavo le canzoni di mezzo secolo prima. Quando qualcosa di nuovo e di importante accadrà, il ricambio sarà un fenomeno naturale, e irresistibile, per il semplice fatto che ci sarà chi avrà le parole giuste per raccontarle, facendo sembrare vecchi non noi “brontosauri”, ma le nostre parole». Eppure, in questi cinquant’anni mille e mille cose sono accadute; e a far sembrare vecchi certi brontosauri sono già oggi quelle stesse loro parole che autocertificano una qualche distrazione – per così dire – nel non essersene accorti; e ciò capita, forse, perché arriva il momento nel quale si smette di osservare il mondo con la curiosità del cronista e lo si utilizza per confermare certe proprie convinzioni da venerato maestro.
Invece, a mostrarsi del tutto refrattario a ogni possibilità di cambiamento è stato, in questi stessi ultimi cinquant’anni, il potere di quel paio di generazioni alle quali anche Serra appartiene. Il tema è oramai logoro tanto è stato frequentato. Tuttavia, forse qualcosa si può ancora provare a dire. Se non altro, per fare resistenza, un po’ come si può.
Anche nel 2007, in agosto, si accese il solito dibattito sulle generazioni. Io avevo poco più di 35 anni ed ero piuttosto arrabbiato con la mia generazione sconfitta e assente, quella di coloro i quali avevano attraversato gli anni Ottanta del Novecento adolescenti o giovani adulti, non a caso definita generazione X. Ed ero arrabbiato anche con almeno un paio delle generazioni che l’avevano preceduta. Scrissi della mia rabbia in un articolo che uscì sul vecchio Riformista, il giornale per il quale all’epoca lavoravo, raccontando come quel decennio – gli anni Ottanta – e quella generazione inesistente – la mia – avessero prodotto conseguenze disastrose anche per l’esistenza delle generazioni successive.
Fu anche l’assenza di quella voce, ad esempio, a favorire l’affermarsi di riforme – su tutte, lavoro e pensioni – che, per la prima volta in modo così abnorme e ingiusto, garantivano i diritti dei padri penalizzando i figli i quali – per primi, in quelle condizioni schizofreniche – crebbero a forza di lavoro precario quando però, con onestà che non includeva penose consolazioni, il precariato era semplicemente precariato e non si chiamava ancora flessibilità come poi avvenne in fretta e come altrettanto in fretta le generazioni successive accettarono che fosse. Tuttavia, non ci sono scuse: l’aver ceduto le armi senza neppure combattere è stata la grande, imperdonabile colpa della mia generazione.
Mi pare però che, da quel giorno del 2007 nel quale sul mio giornale squadernavo quei nostri fallimenti senza cercare giustificazioni, la voce che si continua ad ascoltare sopra tutte le altre sia ancora quella di coloro che crebbero tra gli anni Sessanta e Settanta. Sono ancora lì che si auto-assolvono da ogni cosa, da certi egoismi soprattutto, evidentemente considerati perdonabili, sorvolando sul fatto che quella loro generazione si sia strutturata come un Moloch nella storia e che ciò, come d’uso, abbia richiesto il sacrificio di chi è arrivato dopo nel mondo.
E fa una certa rabbia sentirlo affermare persino da Mario Draghi nel sostanziale disinteresse di quasi tutti, incluso quello di chi, di tutto ciò, paga e pagherà le conseguenze. «Per anni – ha detto l’ex presidente della Banca centrale europea – una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza».
Ma oramai non so più stupirmi neppure della sostanziale afasia prodotta dalle troppe grida che rimbalzano ovunque vacuamente, annullandosi a vicenda, un po’ come accade col bianco che infine risulta dall’insieme dei colori. Né riesco a stupirmi di questo giovane egoismo individualista che monta da tempo e che disperde persino voci preziose come quella, per dirne una, di Aboubakar Soumahoro, o le lascia sole. Ma, appunto, non ci si può stupire, poiché è l’esito inevitabile del mancato abbattimento del Moloch.
D’altra parte, dagli anni settanta a oggi – scrivevo qualche tempo fa su Internazionale a proposito delle Sardine, provando anche a dare un seguito a ciò che avevo scritto nel 2007 sulla mia generazione – si è progressivamente passati dalla contestazione del potere alla semplice protesta. Si è insomma passati dalla rivoluzione, la quale pretende un cambiamento, alla rivolta, la quale invece non è altro che l’eruzione d’un istante, per lo più priva di un pensiero politico. Infine, la contestazione s’è fatta stanca ripetizione di sé, socialmente accettata e dunque innocua.
Invece di prendersi il mondo, si è finito per chiedere l’ascolto del mondo, così che – mentre sul finire degli anni Ottanta si esaurivano le idee e non venivano più sostituite – si iniziava ad affermare un nuovo bisogno di omologazione persino come modalità quasi esclusiva di ingresso nel mondo adulto.
Inoltre, la massiccia precarizzazione dei rapporti di lavoro ha spezzato l’esistenza di molti in una sequenza di frammenti, ciascuno dei quali concluso in sé. Dentro ciascuna di queste porzioni d’esistenza, uomini e donne già adulti sono stati costretti ad accettare condizioni materiali di vita che normalmente sono quelle della giovinezza.
E una volta costretti a comportarsi eternamente come giovani, come si può riuscire ad affermare se stessi nel mondo o – figurarsi! – immaginare di dare al mondo la propria forma? È decisamente più facile adeguarsi al mondo come lo si è trovato. Ci si abitua alla neutralità per la necessità di sopravvivere. E si finisce allora per prendere la forma del mondo.
Ma una società che instrada i giovani verso la neutralità è evidentemente una società conservatrice. E questo va bene soltanto a chi detiene il potere.
All’acqua di questa palude – «L’epoca un poco reflua, stagnante, incerta sulla direzione da prendere» della quale ha scritto Serra, senza peraltro minimamente accennare alle responsabilità di chi il formarsi di quella palude ha favorito – si dovrebbe dare una rimescolata. Per farlo, va recuperato un pensiero politico. Si dovrebbe superare il timore di manifestare la propria dissidenza rispetto allo stato delle cose, come proprio quella generazione ha insegnato alle successive, educandole al rigetto di ogni conflitto, come se il conflitto fosse di per sé un male.
E invece il conflitto andrebbe coltivato poiché, appunto, proprio il conflitto è ciò che la generazione dei baby boomer, una volta presasi ogni cosa, ha cercato in ogni modo di sterilizzare, favorendo questa imponente necessità di omologazione che, in un certo modo, prosegue «l’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato» di cui scriveva Pier Paolo Pasolini.
Per questo, e perché la generazione dei baby boomer rappresenta da troppo termpo il potere, il conflitto generazionale è oramai anche un conflitto politico, al contrario di quello che pare sostenere Michele Serra in un secondo intervento, questa volta direttamente su Repubblica ma sempre sullo stesso tema.
Per la generazione inesistente, la mia, non spero in assoluzioni da chi oggi ha venti o trent’anni e giustamente si arrabbia con chi c’era prima nel mondo. Tutt’al più, posso sperare in una damnatio memoriae che per lo meno sollevi la mia generazione di sconfitti e scomparsi da certe responsabilità che, nonostante tutto, davvero non abbiamo avuto.
Spero però in una nuova generazione che finalmente demolisca il Moloch; e che una folla di Prometeo faccia irruzione nel mondo; e che il tempo e la storia possano riprendere infine il proprio cammino.
E allora forse si riuscirà anche a cambiare questo vecchio mondo patriarcale, poiché quella generazione che si disse rivoluzionaria negli anni Sessanta e Settanta del Novecento questo proprio non seppe farlo: strappò il mondo ai padri autoritari, sì, e se lo intestò, ma per lo più sostituendo la violenza schietta dell’autorità con quella melliflua del paternalismo.
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