Letteratura
Senectus ipsa morbus
Assistiamo da un po’ di anni alla celebrazione e autocelebrazione della tarda età. Osserviamo anche l’inamovibile occupazione di ruoli istituzionali di altissimo prestigio da parte di ottantenni e novantenni, insieme alle performance artistiche, sportive, sentimentali e sessuali di chi si avvicina trionfalmente al secolo di vita. Rispolverando le quattro idee portanti del De senectute ciceroniano, diversi autori firmano articoli, saggi e volumi che esaltano i lati positivi dell’invecchiamento. Per questo mi sembra salutare rileggere le pagine che Jean Améry scrisse in Rivolta e rassegnazione, affermando schiettamente che l’essere anziani è triste, difficile, frustrante. In una parola: brutto. Améry (Vienna,1912 – Salisburgo,1978), nato da famiglia di origini ebraiche non praticante, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938, emigrò in Belgio unendosi alla Resistenza. Nel 1943 fu arrestato e torturato dalla Gestapo, quindi deportato ad Auschwitz e poi a Buchenwald e a Bergen-Belsen, dove venne liberato dall’esercito britannico il 15 aprile 1945. Trasferitosi a Bruxelles, pubblicò numerosi volumi su temi etici e filosofici, tra cui il più famoso rimane Intellettuale a Auschwitz. Morì suicida, e proprio sul finis vitae e la morte volontaria si era espresso laicamente sostenendo tesi scomode e molto discusse.
In Rivolta e rassegnazione, uscito in Germania nel 1968, in Italia tradotto e riedito più volte dal 1988 a oggi, lo studioso austriaco demolisce ogni falsa illusione, ogni consolazione retoricamente attribuita alla vecchiaia, che se in passato godeva ancora di rispetto e venerazione perché considerata portatrice di sapienza e autorità, adesso viene esplorata dal punto di vista sociale e medico nei suoi reali effetti di impoverimento fisico e mentale. “Tutti i mezzi raccomandati su come sia possibile accettare, addirittura attribuire valore al declino – nobiltà della rassegnazione, saggezza crepuscolare, tarda pacificazione – mi parevano ignobili inganni, contro i quali si doveva mobilitare ogni parola”. Il primo, intenso e acuto capitolo introduttivo dedicato al concetto di tempo (“è il nostro nemico giurato e il nostro più intimo amico, l’unica cosa che possediamo in esclusiva totale, ciò che non siamo mai in grado di afferrare, il nostro tormento e la nostra speranza”) indaga l’essenza del tempo personale, interiore, vissuto nella quotidianità, in relazione con il tempo misurato dall’orologio e dal calendario, esterno, collettivo e storico. Il primo può essere segnato dalla noia, dall’esaltazione, dalla fretta, il secondo è implacabile, scorre nell’unica direzione di un futuro che rimane come prospettiva aperta per il mondo, ma va inesorabilmente chiudendosi per l’individuo singolo. Dallo “scatenato galoppo” vissuto nella giovinezza, si passa al “regolare piccolo trotto della maturità” e allo stanco trascinarsi degli ultimi anni. Se il giovane si proietta nel domani e nello spazio che gli si apre intorno, il vecchio vive le sue giornate interiormente, consapevole di quanto siano limitate quelle che gli restano da godere. Il suo è un tempo de-spazializzato, di attesa, di cui avverte pienamente l’irreversibilità, sapendo che presto il suo corpo non occuperà più nessun posto nell’esistenza concreta degli altri. Per lui il tempo torna ad avere senso solo nella memoria del vissuto, cronologicamente confuso, per cui “cinque anni fa” valgono quanto “vent’anni fa”, recuperabili entrambi solo nell’intensità del ricordo di avvenimenti fondanti, incisi nella gioia o nel dolore.
Il testo di Améry esamina il modo in cui la persona anziana trascorre gli anni che la separano dalla fine: diventando estranea a sé stessa, senza riuscire a trovarsi più in sintonia con la società che cambia, patendo lo sguardo indifferente e spazientito degli altri, vivendo con/per il morire. Attraverso una lente lucidamente severa, l’autore racconta di come il senescente si osservi nel decadimento del corpo, arrabbiandosi con le rughe del viso, la presbiopia e la sordità, i muscoli non più tonici, la caduta di denti e capelli: “misera gamba, disobbediente cuore, stomaco ribelle: a me fate male, nemici, a me, che vorrei palparvi e proteggervi e compatirvi e al contempo strapparvi dal mio corpo, sostituirvi”. In una società che impone all’individuo di rimanere sano ed efficiente fino alla morte, agli imperativi esterni si somma anche l’umiliazione di chi si sente sempre più fragile e snervato. E gli altri (i figli, i nipoti, i vicini) con che indulgenza guardano le teste incanutite? Non le guardano, semplicemente. Le trovano imbarazzanti, perché riflettono un futuro problematico, di sofferenza, e di inutilità attuale. Viene in mente quello che ci hanno tramandato Strabone ed Eliano, (e ricordato da Giovanni Pascoli nei Poemi conviviali), sulla legge in vigore nell’isola di Ceo, che obbligava gli anziani a suicidarsi con la cicuta, compiuti i sessant’anni, in quanto considerati di peso alla comunità. Qualcuno sorrideva, durante la recente pandemia del Covid, riflettendo sui risparmi dell’INPS nell’elargire pensioni…
L’individuo che invecchia, persino se ha avuto un’esistenza felice, ricca di soddisfazioni morali e successi finanziari, si ritrova comunque perdente, perché “il suo agire è già stato quantificato e soppesato” dall’ economia di mercato e del profitto. Ha prodotto, è stato utile, è vero: ma non produce più, non serve più. Le jeux sont faits. Un numero sempre più consistente di “âgées” si ribella, vuole continuare a competere, va in palestra, si trucca, ricorre a diete e alla chirurgia estetica; altri si rassegnano, accettando con dignità il tramonto, l’inattività, la solitudine. In questo caso rischiano però l’arroccamento in un privato sempre più ristretto ed egoistico, il rifiuto snobistico di ogni novità, la retrograda ostinazione nel considerare il mondo irritante e incomprensibile, arrivando così a un’inevitabile alienazione culturale.
Sebbene nel subconscio ciascuno di noi sia convinto della propria immortalità, come affermava Freud, il confronto con la grande nemica, l’innominabile falciatrice, diventa più pressante e minaccioso con l’avanzare degli anni. Per quanto cerchi di allontanarne l’idea, il vecchio sa di essere un moribundus, e come tale è preda di angosce e paure, vive in equilibrio precario, in “un’aspettativa vuota e fallace”, tormentata dal pensiero di quando e come arriverà il momento fatale. Jean Améry ha deciso di sceglierlo autonomamente, seguendo l’ammonimento nietzschiano del Crepuscolo degli idoli: “Si dovrebbe, per amore della vita, volere una morte diversa, libera, consapevole, senza alcunché d’improvviso”. Altri non accettano la calata definitiva del sipario, soffrono, si disperano: “Tutti i miei dominii per un attimo di tempo”, sembra siano state le ultime parole di Elisabetta I d’Inghilterra. Ma ‘a livella è decisamente democratica, non conosce privilegi.
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JEAN AMÉRY, RIVOLTA E RASSEGNAZIONE – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2023, p. 149
Presentazione di Claudio Magris, traduzione di Enrico Ganni.
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