Diritti

Se torna l’antisemitismo, tu da che parte stai?

13 Novembre 2015

Portava una kippah, era vestito “da ebreo”, camminava nel quartiere ebraico  di Milano. Si è preso sette coltellate, una lunga diversi centimetri in pieno volto. Quanto vorremmo che il movente dell’efferato delitto non fosse quella kippah, quell’abito da ebreo, quella riconoscibile appartenenza. Quanto temiamo, dolorosamente, che Nathan Graff, cittadino israeliano genero di un rabbino, sia stato accoltellato proprio per per quello. Ancora non sappiamo la verità, e speriamo – per assurdo che possa sembrare, quando si parla di un crimine che sicuramente è stato commesso – che abbia un’origine diversa da quella.

Non ci sono parole per dire il malessere vero, profondo, che ci assale, come milanesi, come cittadini italiani, nel pensare che proprio nella nostra città, dove i quartieri a più alta densità ebraica scivolano verso una periferia di integrazione difficile e malesseri, dove lo scintillio di Expo e della Darsena non sono arrivati, essere ebrei, nel 2015, è pericoloso.

L’episodio drammatico, ovviamente in attesa di capire i contorni del fatto, impone alcune riflessioni da mandare a memoria, buone sempre, a prescindere dall’esito delle indagini. La prima: l’antisemitismo, forma archetipica di ogni razzismo e capace di germinare l’ossessione monotematica e lo sterminio, non è morto. Anzi. Inchieste giornalistiche e dati statistici ci rivelano che il nostro antisemita, proprio nell’Europa nell’Europa nata dalle ceneri di Auschwitz, è vivo, e lotta contro di noi. Sottovalutare, relativizzare, non litigare con chi avalla, è già un omicidio.
La seconda: Milano, la città che amiamo ormai raccontare come il modello della città risolta, dell’Italia che ce la fa, è un posto complesso, che accoglie pulsioni contraddittorie, una metropoli stratificata e non pacificata, come ogni vera metropoli europea. Un posto anche violento, che fa ancora emergere rabbie ataviche, pregiudizi, esclusioni. Su questo fronte, fermando immediatamente la “caccia all’arabo” e ogni propaganda troppo in fretta buttata in pasto a opposti pregiudizi, ci si aspetta che chi è nato in nome degli ideali di fraternità libertà e uguaglianza si alzi, in fretta, e oltre alla solidarietà mostri idee, risolutezza, e nessun distinguo. Nessun “eh, però Israele”. Nessun “ma insomma, con tutte le discriminazioni che ci sono vi mobilitate proprio per un ebreo’, e così via.

Alzarsi in piedi immediatamente, unitamente, contro un’ipotesi, foss’anche remota, di violenza antisemita, significa infatti alzarsi a difesa dei fondamenti del nostro stare insieme come comunità, dell’accettazione e della difesa del diritto all’essere minoranza etnica e religiosa. È un diritto che ci riguarda. Poi, domani, speriamo di poterci risvegliare da questo brutto incubo, e scoprire che il povero Nathan Graff è stato vittima di un crimine che nulla a che fare con il suo essere visibilmente ebreo. Ma intanto, ci siamo portati avanti: che su queste cose non si scherza, non si può scherzare. L’allarmismo, anche di fronte al solo sospetto, è un dovere di civiltà. Perché chi attacca il diritto ad essere visibilmente, apertamente minoranza, attacca il cuore, il fondamento ultimo, della nostra civiltà.

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