Società

Se mi sgarbi, ti cancello. Prima puntata

15 Maggio 2021

Cancellare è l’ultima moda del momento. Ma, si sa, le mode vanno e vengono, spesso ritornano. Certo, con le relative modifiche dovute al periodo che si attraversa, anche perché la tecnologia cambia e quindi la moda può presentare più o meno varianze a seconda di chi la lanci e ne determini le regole e i dettagli. Il delirio collettivo, anzi, i delirî collettivi che caratterizzano la nostra epoca in realtà sono decalcomanie (parola di derivazione francese) di altri delirî avvenuti in passato, anche in passati abbastanza remoti in cui molti dei suddetti delirî vennero inventati. Diciamo che, in momenti di confusione come l’attuale, il ripescaggio (usare repêchage avendo l’equivalente in italiano mi sembra politicamente scorretto, anche se, per essere davvero corretti, bisogna riconoscere che il barbarismo deriva, ahimè, dal francese…) di antiche pratiche che ritenevamo obsolete fosse fuori moda (o démodé, se si preferisce) o quanto meno poco opportuno, viste le priorità dei tempi. E invece no. Insomma, cancellare è vintage e ognuno può scegliere se usare la pronuncia inglese o francese, anche se, per correttezza, anche qui la parola deriva dal francese.

La cultura della cancellazione, oggi ce l’hanno sulla bocca proprio tutti, come fosse un pregiatissimo vino d’annata. Pur se la chiamano esoticamente cancel culture – lasciamo stare le pronunce locali, per carità di patria – proprio perché proviene da un mondo anglosassone d’oltremare che, pur di farsi notare, vuol cancellare anche quel poco passato che possiede in nome di qualcosa che corretto non sarà mai e poi mai, anche perché trovasi nelle mani sbagliate. Cancellare sembra oggi il problema principale di ogni “democrazia” che voglia considerarsi ipocritamente degna di questo nome.

In realtà negli USA, la prima democrazia del mondo come amano definire sé stessi gli Americans, succede spesso, ma loro non lo sanno o non se ne accorgono, che non inventino proprio niente. E, sempre negli USA, dove, diciamolo fuori dai denti, la maturità generale sta uniformandosi sempre più a quella di uno scimpanzé (film metaforici come la saga del Pianeta delle Scimmie sono sonori campanelli d’allarme), esiste sempre e solo il bianco e il nero (nero si può dire?), il diavolo e l’acquasanta, il bene e il male. Manichei cronici e felici di esserlo. Le infinite varianti dei gruppi di persone, nella sacra Costituzione, non sarebbero previste, poiché tutti gli uomini sarebbero “creati” uguali ma, se li si vuol considerare, quando fanno comodo, allora diventano lobby. C’è il raggiungimento della felicità come meta, in quella Costituzione. E una lobby si muove quasi sempre in contrasto colle altre, per la propria felicità. Così la lobby dei bianchi ce l’ha colla lobby dei neri (e viceversa), quella degli straight ce l’ha con quella dei gay, quella degli ebrei ce l’ha contro tutti e tutti ce l’hanno contro quella degli ebrei, quella dei latinos con qualche altra, magari di altri latinos, e così via, in una lotta perenne senza frontiere. Ultimamente con tante sparatorie in scuole, banche, per strada, giusto per esprimere meglio il concetto di lotta e del raggiungimento della felicità. Le sparatorie c’erano anche ai tempi di Bonnie e Clyde, comunque, e prima tra pellirosse e cow boy, una moda del passato. Perfino a Capitol Hill, considerato inviolabile fino a poco fa, qualcuno ci ha rimesso la buccia, per la propria felicità. Che vogliamo farci, loro credono di funzionare così, in un vintage perpetuo, e si vantano che questo sarebbe la democrazia, sennò sarebbe un orribile comunismo (senza neanche sapere che cosa il comunismo sia: Sanders comunista! Seh, vabbè…). Ma torniamo alla moda del momento. Era giusto per ricordare il terreno fertile statunitense su cui, nel corso del tempo, prosperano le censure e le cancellazioni da parte di una o di un’altra lobby se non addirittura di molte lobby insieme.

Esisteva, in epoche antiche, la damnatio memoriae, ossia la condanna della memoria, e riguardava personaggi particolarmente perfidi e/o ostili (hostes), nemici di Roma in età repubblicana e, in seguito, dell’Impero Romano. Chi stava antipatico al Senato o ne parlava male, o, peggio, lo tradiva, e quindi tradiva Roma, veniva letteralmente obliato: il nome gli veniva tolto, ogni documento dove si parlasse di colui veniva distrutto o, nel caso di documenti lapidari, veniva scalpellato via, alle statue che lo rappresentavano veniva mozzata la testa, ogni sua opera era cancellata, perché la massima condanna era che si perdesse il ricordo di un tale iniquo essere. E lo pativano pure i suoi discendenti, perbacco, quest’oblio compulsivo. Se mi sgarbi, ti cancello.

La rimozione dell’iniquo attraverso la memoria negata, in un’epoca in cui i documenti erano scarsi e anche l’alfabetizzazione, assai diversa da come la intendiamo oggi, non se la passava benissimo, era alquanto facile. S’è visto cos’abbia significato, per altri versi, la rapida decadenza dell’Impero Romano senza la propagazione della memoria e delle conquiste dell’avanzata tecnologia dell’epoca: una regressione che è durata un millennio. Non proprio una damnatio memoriae, o forse sì, visti anche i danni provocati all’antica sapienza dal fanatismo religioso dei dilaganti cristiani e dai successivi mussulmani: la biblioteca di Alessandria fu distrutta più volte, dagli uni e dagli altri, anche se nessuno saprà mai sempre con certezza da chi, come, quando. Il perché è invece chiaro. Oggi, colle pagine cache di internet, i misfatti, o ciò che a volte viene interpretato in quel momento come misfatto, si possono nascondere fino a un certo punto. C’è chi ci riesce, comunque. Ma c’è anche da dire che la memoria della gente, attualmente, è in genere abbastanza labile, un po’ perché non viene esercitata, un po’, forse, perché le odierne smanie del consumo implicano il rapido oblio e la sostituzione con qualcos’altro da consumare, e non c’è sempre bisogno di una damnatio memoriae per dimenticarsi di qualcuno e di ciò che colui o colei ha fatto, nel bene e nel male. Perfino la memoria è consumo. Spesso è anche consumata. Anche perché sarebbe meglio ricordare che quasi ogni regime, quasi ogni ideologia, quasi ogni totalitarismo, ha le sue condanne delle memorie. Memorie scomode, che invece spesso sarebbero utili per ricordare fatti e misfatti, e che, secondo i punti di vista, sono usate per svilire o esaltare qualche episodio o qualche personaggio del passato. Se chiedeste a un giovane italiano medio d’oggi, e forse anche tedesco od olandese, di parlarvi di ciò che accadde in Argentina o in Cile negli anni Settanta del secolo passato vi risponderebbe forse che la Carrà (se qualcuno si ricordasse ancora di lei) ebbe molto successo e stop. Ma non saprebbe neanche che cosa accadeva in Italia nello stesso periodo. Memoria azzerata. Cancellare è sempre vintage.

Oggi è di moda cancellare parecchie cose, spesso non proprio fondamentali, per sentirsi più buoni e più ben disposti verso alcune categorie. Diciamo che questa cancellazione della Storia ha aspetti discutibili e a volte avrebbe anche un’apparente giustificazione. Si butta via spesso anche il bambino, coll’acqua sporca, quasi senza percepirlo. Io credo, ma forse sono solo io, povero intellettualoide di quarta scelta in quest’epoca dove gli intellettuali autentici sembrano essere svaniti, che cancellare non sia mai veramente un bene. Io e pochissimi altri, ottimisticamente, che volete farci, sono troppo autoreferente.

Includerei nella cultura della cancellazione, parlando di una cosa che si conosce bene perché avviene sul nostro territorio, la trasformazione delle nostre città d’arte in parchi di divertimento. Dove un tempo c’erano librerie, teatri, caffè letterari, case editrici, oggi ci sono cibi rapidi, cibi di strada, e negozi di stracci firmati. Il caso di Firenze, per esempio, che, svuotata di turisti perché era impossibile farceli arrivare per la pandemia, si è riscoperta deserta, perché ormai il tessuto sociale, culturale ed economico – economico relativo a quella società – della città non esiste più da decenni. Anche questa è cancellazione di una memoria viva e non esclusivamente museale, declinata diversamente dalla frenetica moda abrasiva di cui stiamo parlando.

La memoria in senso lato è l’unica cosa che ci consente di costruire un presente e un futuro, almeno nella concezione di tempo che noi abbiamo in Occidente.

Nei giorni scorsi ho letto un libro di un caro amico che sarà pubblicato tra non molto, un libro che mi ha fatto assai riflettere e che appena uscirà vorrei presentarvi perché, secondo me, è un’opera di grande intensità e soprattutto è una riflessione continua su ciò che appare ed è o non è, dalla caverna platonica a Oliver Sacks, passando attraverso i secoli per le esperienze di artisti, architetti, filosofi, fisici che hanno riflettuto e sperimentato la percezione. L’ho divorato in pochi giorni. La percezione è il soggetto di questo libro, che si sviluppa e mostra i suoi labirinti attraverso i quali giungere a un’interpretazione del mondo in cui viviamo, soprattutto relativizzata a sé stessi. S’intitola “Cecità del vedere”.

La percezione. Anche la memoria è una percezione, è un mettere in ordine i frammenti della realtà con cui veniamo quotidianamente a contatto per cercare di rigovernare noi stessi nel quartetto delle dimensioni di larghezza, lunghezza, profondità e tempo. È importante, almeno per non scordarci della nostra identità. Se venisse a mancare una di queste dimensioni potrebbe esserci qualche difficoltà a farlo, sebbene coloro che non possiedono tutti i sensi, in particolar modo la vista, hanno tutta una loro concezione di collocarsi all’interno della realtà.

Abbattimento della statua di Cristoforo Colombo a Minneapolis da parte dei dimostranti

Orbene, cancellare la memoria è come perdere una o più dimensioni che ci permettono di collocarci all’interno di un processo storico e di comprenderlo. Altrimenti potrebbe succedere come per la realtà di 1984 di George Orwell, dove la memoria viene continuamente modificata creando altri passati che non sono esistiti e di conseguenza influenza in maniera fittizia i presenti e i futuri di tutti.

Colla scusa che Cristoforo Colombo era un esploratore imperialista perché al servizio dei reali di Spagna, e quindi interpretato come un invasore che causò stragi e genocidi nelle Indie d’Occidente, oggi si ritiene, in alcuni posti, di dover abbattere le statue che lo raffigurano. Perché la lettura della Storia secondo i seguaci di Colombo è unicamente “bianca” e non considera le pene che hanno patito gli autoctoni e gli schiavi (neri, rossi, marroni o di qualsiasi altro colore) e le loro storie personali, pur degne di essere annoverate nel patrimonio mnemonico dell’umanità.

Può essere interessante vederla così, da altri punti di vista, e indubbiamente lo è anche. Ma se non si conoscesse come si sono sviluppate le attuali civiltà americane – ben diverse da quelle native – che hanno come unica origine la migrazione, scelta o forzata, di milioni d’individui da tutte le parti del mondo, ben poco si capirebbe della loro identità e del pasticcio continentale etnico-culturale che rappresentano. Il passato è necessario e bisogna conoscerlo appieno, nelle sue sfaccettature e senza le derive iperboliche o paraboliche di certi gruppi di esaltati che, per darsi un’identità, vorrebbero distruggere l’identità collettiva. Non è abbattendo una statua o mettendo al bando certe parole che si cambia la Storia, ma questo quelle povere e semplici creature non lo sanno. Anzi, una statua, una lapide, un monumento, a volte possono stimolare la curiosità di chi li osserva e spingerlo a chiedersi di quale passato siano i segni. Solo una volta conosciuto si potrà valutare ed è un processo che, secondo me, dovrebbe essere sempre a portata di mano altrimenti diventerebbe un dogma e basta.

1 – continua

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