Macroeconomia

Se i corpi intermedi sono morti capiamo almeno perché

17 Ottobre 2022

L’immagine è macabra ma visto che da più parti e non da oggi si sostiene che le rappresentanze dell’economia e della società civile sono morte, allora bisogna risalire alle cause del decesso perché si tratta di una perdita importante. I cosiddetti “corpi intermedi” sono (a questo punto) stati un architrave importante del tessuto sociale, il mezzo attraverso il quale le istanze “dal basso” si fanno politiche. Quasi come un inverter che trasforma l’energia dei bisogni e delle aspirazioni in strumenti di politica e atti normativi. Anche durante l’ultima campagna elettorale sono sembrati piuttosto defilati, forse in attesa degli eventi e questo non è certo un gran segno di vitalità considerando che si presagiva, come poi è successo, di un ennesimo “giro di valzer” nelle scelte dell’elettorato che evidentemente le varie “conf”, “asso”, “forum” hanno preferito non ballare, abdicando alla loro funzione di intermediazione sociale e preferendo riposizionarsi a cose fatte.

Dunque di cosa sono morti i corpi intermedi? La diagnosi più diffusa è “mal di disintermediazione”, nel senso che in questi ultimi anni, complice una svariata serie di fattori che vanno dal crollo delle ideologie e delle loro matrici culturali fino all’avvento del digitale che peraltro giustamente viene riconosciuto come “l’ultima ideologia”, i soggetti una volta rappresentati preferiscono fare da sé. Si sentono liberati dal giogo delle appartenenze sia sul fronte delle opzioni strategiche – ad esempio aderendo a più agili e meno vincolanti “alleanze di scopo” – che dei classici servizi di supporto potendo in questo caso accedere a più vasti ecosistemi di risorse consulenziali, formative, progettuali, finanziarie, ecc.

Fine della storia quindi? A ben guardare no perché banalmente i soggetti in questione nonostante gli svariati “memento mori” sono ancora tra noi, solo che hanno assunto nuove spoglie che però non si notano tanto a livello di struttura organizzativa ma piuttosto di infrastrutturazione dei processi sociali. Se si guarda alle sigle e agli organigrammi, infatti, tutto sembra rimasto fermo al novecento; sono infatti pochissimi i casi di ristrutturazione, anche solo estetica, sulla base di una nuova idea di società. Quel che sembra cambiare è invece il flusso della rappresentanza che tende sempre più a concentrarsi non nell’alveo della “politica” (ormai svuotato da decenni) e neanche nella “base associativa” ma proprio nella parte mediana, quella che in teoria avrebbe dovuto “limitarsi” a fare da interfaccia. La tecnocrazia dei corpi intermedi – peraltro caratterizzata dalla presenza ormai su larga scala anche nelle organizzazioni datoriali di funzionari piuttosto che di imprenditori distaccati – è per certi versi diventata “senziente”. Ha iniziato cioè a sviluppare una sua “coscienza di classe” secondo la quale è lei a produrre contenuti non solo tecnici ma anche politico culturali intorno ai quali poi crea dei rassemblement, spesso differenziati, dei propri aderenti e di altri stakeholder.

In questo passaggio aiuta molto il contesto: da una parte basi associative che pur manifestando disamoramento per tutto ciò che è rappresentanza continuano a “pagare la tassa” nella convinzione che ci sia sempre un’utilità, anche se marginale e specifica, cioè su singole “manifestazioni d’interesse”, e non più culturale e politica. Questo atteggiamento consente alla tecnocrazia dei corpi intermedi di proporsi come costruttrice di cornici di senso potendo accedere, e questo è un altro elemento di contesto rilevante, a quadri di politica semi strutturati che predefiniscono cioè obiettivi, più che condivisibili, che basta “solo” perseguire. L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e i suoi ormai mitologici 17 SDGs è forse l’esempio più emblematico in tal senso, con tutto il suo corredo di think tank e di eventologia spesso utilizzata, non a caso, come personal branding dalla dirigenza dei corpi intermedi. Allo stesso tempo anche l’innovazione sociale scaturita da quel poco o tanto di disintermediazione operata in questi anni non sembra aver più di tanto voglia di “cambiare le regole del gioco” anche per quanto riguarda gli schemi di policy making preferendo annidarsi all’interno dei contesti esistenti per passare all’incasso in termini di rendita di posizione.

Per tutte queste ragioni (e forse altre) è vero quindi che i corpi intermedi sono morti, ma forse non per le cause più spesso citate. Sono, o stanno diventando, un’altra cosa: assomigliano sempre meno a organismi che dinamizzano la vita dentro le istituzioni (secondo il famoso motto latino “vitam instituere”) e sempre più ad apparati che forti dell’adesione a framework di policy “certificati” rispetto alle finalità dettano la linea ad associati sempre più disincantati. Una prospettiva non proprio edificante per chi ha a cuore assetti di democrazia ben funzionanti anche perché dislocati nei luoghi di vita delle comunità e dei territori.

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