Scuola

La valutazione dell’istruzione: aberrazioni e inadeguatezze

24 Aprile 2022

Il patto sociale che istituisce le nazioni moderne si basa sull’accordo per cui da un lato i cittadini cedono allo Stato parte delle loro libertà, sotto forma di doveri, e parte delle loro ricchezze, sotto forma di tasse, dall’altro lato lo Stato garantisce ai cittadini alcuni diritti collettivi che si rispecchiano in altrettante istituzioni. Proprio per questo si parla di diritti-doveri quando ci si riferisce ad ambiti che implicano questo stretto legame tra cittadini e Stato.

Così il cittadino acquisisce alcuni diritti come quello alla sanità, a una vita sicura, a una giustizia veloce ed equa, e lo Stato assume il dovere di garantirli. Ma in questo legame vale anche l’opposto: il cittadino assume anche il dovere di curarsi, di comportarsi in modo sicuro, di rispettare le leggi, e lo Stato ha il diritto d’imporre questi doveri. Lo stesso vale anche per la scuola intesa come una delle fondamentali istituzioni alla base del patto sociale: il cittadino ha il diritto ad essere istruito e lo Stato ha il dovere di garantirne l’istruzione, ma il cittadino ha anche l’obbligo ad istruirsi e lo Stato ha il diritto ad avere cittadini istruiti capaci di partecipare alla vita pubblica. Non avremmo ricordato brevemente queste ovvietà se non fosse necessario ribadire che in uno stato moderno l’essere istruiti è un obbligo, oltre che un diritto e fa parte di quei diritti-doveri che legano fra loro Stato e cittadini.

Negli ultimi anni la scuola viene sempre più intesa come un ‘servizio’ fornito dallo Stato, in modo da assimilarla meglio al mercato anche a costo di snaturarne l’essenza. A questo slittamento semantico ha contribuito la nuova terminologia che parla di ‘fruitori’ invece che di ‘studenti’, di corsi ‘erogati’, di ‘prodotti’ della ricerca, di ‘soddisfazione del cliente’, ecc. Si è arrivati a istituire paralleli affascinanti ma fuorvianti, come quello tra l’istruzione e il cibo di cui ci si nutre, mentre sarebbe più corretto pensare all’istruzione non come ad un cibo ma piuttosto come alla capacità di cucinare. Anche i molti e diversificati processi di ‘valutazione’ sono comprensibili solo all’interno di questo processo. Infatti essi presuppongono che le scuole debbano essere in competizione tra loro per migliorare il ‘servizio’ offerto, e presentano un medesimo fine surrettizio, a volte palese a volte meno: quello di premiare le realtà che funzionano meglio e, di conseguenza, punire quelle che funzionano peggio. Siamo così immersi in una concezione capitalistica e competitiva del mondo che questa finalità può addirittura apparire giusta. Per accorgerci della gigantesca aberrazione sottesa basta però pensare a cosa succederebbe se volessimo comportarci nello stesso modo nei confronti della giustizia, della sicurezza nazionale o della sanità. Lo Stato può permettersi di finanziare maggiormente i tribunali, i corpi di sorveglianza, gli ospedali che funzionano meglio e sottrarre finanziamenti a quelli inefficienti o posti nelle zone più problematiche? Che senso avrebbe tale distribuzione dei finanziamenti? Non si dovrebbe piuttosto cercare di eliminare il divario tra le istituzioni e far funzionare meglio quelle che non funzionano sufficientemente bene?

Se la finalità per cui si valuta è aberrante, gli strumenti con cui si valuta risultano peraltro del tutto inadeguati. Giudicare cosa sia migliore è un atto a ben guardare soggettivo, perché per farlo non basta un sistema di regole (o peggio di parametri) ma anche in campi estremamente normati, come ad esempio nel diritto, serve sempre un giudice la cui responsabilità è alla fine personale. Anche per questo invece di giudicare quale scuola è migliore (cosa che porterebbe ad esaminare i contenuti, le modalità d’insegnamento, ecc.) si preferisce valutare quale scuola rispetti meglio alcuni parametri: diventa così possibile mettere in fila le scuole da quelle che li rispettano meglio a quelle che li rispettano peggio. Però nel farlo si dimentica un fatto fondamentale: un parametro, qualsiasi esso sia, non sarà mai in grado di definire chi o cosa sia migliore. Tralasciando il fatto che cambiando i parametri utilizzati cambierebbe anche il risultato, se poi analizzassimo seriamente cosa misurano i parametri scelti per tale valutazione troveremmo situazioni che oltrepassano il ridicolo! Ad esempio: una scuola è giudicata migliore più alta è la percentuale di studenti promossi velocemente e col massimo dei voti.

Ormai la nostra società dovrebbe aver superato la puerile ricerca di chi è più intelligente, più bravo, più, più, più… e dovrebbe aver riconosciuto che esistono solo forme diverse di intelligenza, alla faccia di chi si riempie la bocca con grandi discorsi sulla tutela delle differenze. A volte proprio le intelligenze che sembravano meno adatte a un compito si rivelano quelle capaci di risolverlo in modo inaspettato facendo progredire la nostra società. Forse la collaborazione dovrebbe finalmente soppiantare la competizione nei nostri parametri di giudizio. Forse dovremmo sapere che non è possibile stabilire il merito di una persona (o di una scuola) come si stabilisce la sua altezza o il suo peso! Con buona pace di chi vorrebbe mettere in fila scuole e persone dalle migliori alle peggiori. Per quanto possa sembrare lapalissiano, sembra però necessario ribadire che l’unico modo per aumentare il numero di persone intelligenti è quello d’istruire un maggior numero di persone.

Anche l’enfasi posta sulla necessità di aggiornare gli ‘strumenti d’insegnamento’ quando non nasconde una pubblicità indiretta per conquistare nuovi settori di mercato, riprende una litania ritrita: già quando fu inventata la radio si pensò che la scuola potesse essere fatta a distanza, poi si è riprovato con la televisione, con i dvd, con la rete e ora con i collegamenti online. La forma dell’insegnamento è pressoché immutata dal tempo di Platone solo perché è rimasta immutata la modalità di apprendere dell’uomo. L’uomo impara principalmente imitando, sia il maestro sia i suoi compagni, e i risultati migliori si hanno in un gruppo stimolante non troppo piccolo né troppo vasto.

Tutte queste pressioni portano infine a travisare il senso stesso dell’istituzione scolastica: alla finalità di emancipare l’individuo in modo da favorirne la realizzazione personale oltre che lavorativa, si è lentamente sostituita quella di preparare una persona a svolgere un lavoro. Di fronte a questo nuovo scopo la struttura scolastica non può che essere del tutto inadeguata. A cosa serve studiare storia dell’arte o filosofia, a cosa il latino, e in ultima istanza perché imparare a scrivere o a far di conto? È di certo più veloce andare direttamente a lavorare, imparando sul campo quello che serve per svolgere bene una data mansione. Questa tendenza, seppur surrettiziamente, è sempre più presente nelle ‘politiche culturali’ occidentali ed è rafforzata dalla delegittimazione della professione d’insegnante che avviene sia dal punto di vista economico (gli insegnanti sono spesso pagati meno rispetto a chi lavora nella giustizia, nella sicurezza e nella sanità), sia da un punto di vista sociale (considerati quando va bene come fannulloni, quantomeno in Italia). A questa tendenza generale sembrano opporsi solo i moltissimi insegnanti che nonostante tutto fanno con dedizione e passione il proprio lavoro.

In questo panorama l’Italia sconta il fatto che da anni è il paese europeo con minori investimenti nell’istruzione (!), cosa che l’ha portato ad essere anche il paese col maggior tasso di analfabetismo e quello con la minore percentuale di cittadini che accedono a un’istruzione universitaria: tutti fatti che in futuro non possono che determinare l’inevitabile declino della nostra nazione. Si tratta di un panorama desolante che la pandemia ha perfino aggravato. Il prolungarsi dell’uso delle misure di distanziamento aumentano il disagio psicologico degli studenti, fanno crescere l’abbandono scolastico, e demotivano anche gli studenti più volenterosi, anche se queste problematiche compaiono poco negli organi d’informazione. Gli effetti si manifesteranno fra uno o due decenni, ma poiché viviamo in una società attenta solo all’immediato presente nessuno si occupa di quello che accadrà in un futuro così lontano: si tratta di un tempo troppo lungo per averne ritorni politici, ma rimane il tempo necessario alla crescita e allo sviluppo di un essere umano.

 

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.