Scuola

Valutare i docenti o valorizzarli?

13 Novembre 2024

Durante il periodo di Didattica a Distanza mio nipote, studente all’ultimo anno di un Istituto tecnico, mi passò il link del canale YouTube della sua professoressa di Italiano. Incappai subito in una lezione su Ludovico Ariosto. La webcam inquadrava una porzione dei capelli della professoressa e il soffitto della sua camera; la sua voce fuori campo leggeva, con tono drammaticamente monotono e un marcatissimo accento pugliese, quello che doveva essere il libro di testo. Così per tutta la durata del video. Non un solo momento di commento del testo, di discussione, di analisi. Nulla. Solo la lettura del testo. E così tutti gli altri video.

Non posso dar torto a Maria Pia Baroncelli, che riferisce analoghe esperienze durante la DaD di suo figlio, e pone dunque il tema della valutazione del lavoro dei docenti. Non posso darle torto, ma con una riserva. Durante la DaD mi sono confrontato a lungo con colleghi che si interrogavano su come continuare in quella situazione a fare un lavoro di qualità; docenti che hanno sperimentato, che si sono reinventati digitali, che si sono rimboccati le maniche per cercare di far arrivare la loro voce agli studenti anche attraverso lo schermo di un computer (o, spesso, il monitor di uno smartphone). Non sono in grado di dire quanti fossero, in percentuale. Così come non so dire quanti siano i docenti che si limitano a leggere il libro di testo o poco più. Mi piace sperare che questi ultimi siano pochi. Ma so con certezza che esistono. E che fanno danni enormi, negando di fatto ai loro studenti il diritto all’istruzione.

Su una cosa non posso essere d’accordo con Baroncelli, ed è la convinzione che un insegnante eccezionale raggiunga dei risultati eccezionali. “Prendete i piccoli montanari allievi di Don Milani: impararono anche due lingue a testa, tra cui l’arabo, e venivano tutti da famiglie di analfabeti”, scrive. Avendone conosciuto qualcuno, ho qualche dubbio sul fatto che tutti i piccoli allievi (o studenti) di don Milani abbiano imparato due lingue, tra cui l’arabo. Ma soprattutto non confronterei don Milani, che non aveva da rispondere a nessun Ministero dei suoi metodi, che comprendevano anche la frusta – rivendicata nella Lettera a una professoressa –  con un docente della scuola pubblica, il cui lavoro si iscrive in vincoli istituzionali ben precisi. 

Mi pare che non esista l’insegnante eccezionale in sé. Ho colleghi eccezionali di Italiano o di Filosofia al Classico. Docenti che scrivono libri e che riescono ad affascinare per ore i loro studenti. Ma non riesco ad immaginarmeli in un Professionale. Alcuni di loro, temo, non resisterebbero un mese. Non è nemmeno facile, per dirla tutta, dire cos’è e cosa fa un docente. Il termine copre una varietà di figure diverse: si va dal dotto conferenziere, che ha di fronte a sé venticinque persone composte e attente, al quasi assistente sociale, che deve inseguire gli studenti nei corridoi o impedire che saltino giù dalla finestra. 

Mi succede abbastanza spesso che mi scrivano amici alle prime armi con la scuola. Persone colte, che hanno alle spalle anni di ricerca universitaria e che credono fortemente nel valore educativo della scuola. E si ritrovano in classi nelle quali sembra che qualsiasi lavoro sia impossibile. E non solo perché hanno di fronte studenti in qualche caso perfino violenti, ma soprattutto perché si trovano in contesti istituzionali malati. Scuole che raddoppiano negli anni il numero di iscritti, i cui studenti diventano clienti che hanno sempre ragione, oppure scuole che hanno semplicemente gettato la spugna, con una sorta di impotenza appresa pedagogica. In ogni caso sono dinamiche che si scaricano interamente sulle spalle dei docenti. E sono spesso le spalle fragilissime di docenti alle prime armi. 

In questo contesto quali sono i margini per essere docenti eccezionali? Certo, possiamo immaginarci il soggetto e la sceneggiatura del film in cui una docente alle prime armi giunge in una scuola difficile e, dopo qualche mese di smarrimento, riesce a incidere profondamente sulla vita dei suoi studenti. Ma la realtà è più complessa di così. La storia della pedagogia ci mostra che grandi risultati sono stati ottenuti in contesti difficili quando c’era un grande educatore che aveva la libertà di creare la sua scuola o il suo centro educativo. La nostra docente si troverà invece ad essere un piccolo pezzo di un meccanismo istituzionale che potrà essere irrimediabilmente disfunzionale; e nessuno ha il diritto di chiederle di operare miracoli.

Dieci anni fa avevo una classe prima al Liceo delle Scienze Umane di una cittadina pugliese. Una classe difficile, come erano tutte quelle del biennio. Ma qui c’erano tre studentesse che rendevano letteralmente impossibile il lavoro. Prendevano i cellulari, mettevano musica, cantavano e ballavano durante la lezione. Nessun provvedimento disciplinare aveva alcun senso: perché loro a scuola non volevano venire. Né alle loro famiglie importava granché che studiassero. Ognuna di loro aveva alle spalle situazioni terribili di violenza e degrado sociale. Mi piacerebbe poter dire che invece il dialogo funzionava. Che era sufficiente prendersi del tempo per confrontarsi occhi negli occhi, naturalmente nei corridoi durante il cambio dell’ora, o lasciando la classe scoperta, perché la scuola italiana non prevede un tempo e un luogo in cui un docente possa parlare con calma con un suo studente. Ma no, non funzionava nemmeno questo. Non posso escludere che avesse qualche effetto. Ma non era un effetto a breve termine.

Ora che sono altrove, a fare un altro lavoro, so che qualcuna  ha preso il mio posto. So che, come me, si chiederà cosa fare. So che si sentirà spesso terribilmente impotente e penserà che forse è tutto inutile, che la scuola semplicemente non funziona, o almeno non funziona in quei contesti. Che sarebbe meglio se tutti s’andasse altrove a fare qualcos’altro.  E so anche che questa docente ha bisogno di una cosa, più di qualsiasi altra. Ha bisogno di non essere lasciata sola. Ha bisogno di sentire che la società crede in lei e nell’importanza del suo lavoro. Ha bisogno di avere intorno una comunità che l’aiuti a districare la matassa dei problemi sociali in cui sono impigliate le sue studentesse. E ha bisogno di una politica che riconosca pienamente il valore politico del suo lavoro di docente, invece di scatenare la caccia al docente da additare alla pubblica disapprovazione.

Ha bisogno di queste cose, per migliorare giorno dopo giorno come docente. Per imparare a farsi la sua strada nel labirinto delle nostre aule scolastiche, nel quale è facilissimo perdersi. Per non ridursi un giorno, per solitudine, a leggere in classe il libro di testo.

Può essere che sia urgente valutare i docenti. Più urgente, però, è valorizzarli. 

 

In copertina: immagine creata da Midjourney su prompt di Antonio Vigilante.

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