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Vacanze senza compiti? Quando a scuola comanda papà
Succede che un papà confezioni una letterina ben fatta e ben scritta, con impeccabile grafia, ad uso e consumo dei social network. Ci teneva a far sapere al mondo che lui, a suo figlio, i compiti delle vacanze non li fa fare. Perché ha deciso così. Perché una pausa è una pausa. Fine delle discussioni. E il mondo ha risposto – puntualmente – rilanciando a mezzo social la piccola provocazione. L’epistola, in teoria indirizzata agli insegnanti del ragazzino, voleva chiaramente essere virale. E virale è diventata in un momento. Basta poco, oramai. E basta poco per avere il consenso della gente, perché alla gente piace quest’immagine di padre controcorrente, che contrasta le regole della “casta” (politici, poteri forti, tecnocrati o insegnanti, il succo è uguale) e che libera il figlio dalla schiavitù didattica, per goderselo da giugno a settembre a tempo pieno, esplorando i sentieri della vita mano nella mano. Anarchismo e romanticheria: successo assicurato. In tempi di “gentismo”, poi, la formula è vincente.
E invece, a dirla tutta, questa cosetta carina a forma di spot un certo fastidio lo muove. Intanto per un fatto estetico, di stile: più fricchettoni di così si muore. Quel profumo patinato di retorica on the road, di antagonismo soft in salsa borghese, di ribellismo edulcorato da figli dei fiori 2.0… Se non è orticaria, poco ci vuole.
E poi l’arroganza, dietro quella tenerezza di genitore fuori dagli schemi, migliore amico, complice e compagno d’avventure. L’arroganza gentile di chi non solo dice, ma soprattutto insegna – piano piano, sottovoce – che mettere in discussione una regola non è innanzitutto un fatto creativo, metaforico, mentale, di sfida con stessi e di cammino interiore, quanto una cosa assai più semplice, tipo quel vecchio slogan di guzzantiana memoria: “facciamo un po’ come cazzo ci pare”. In fondo, questo padre, cosa racconta al pargolo, mentre si fa bello con la rete, mentre veste i panni del contestatore buono, mentre rispolvera la faccenda della fantasia al potere? La solita storia: il sistema si combatte aggirandone le norme a cuor leggero. Il prof ritiene che qualche lettura, qualche esercizio, qualche ripasso, siano utili per non perdere il ritmo nell’arco di tre mesi? E chi se ne frega. Pedagogia domestica e sovranità familiare, questo ci vuole!
Del resto, dice il papà, tanti esperti concordano con lui: in vacanza è meglio non studiare. Chi siano questi esperti e chi quelli contrari, non è dato sapere. Ribellismo, a volte, fa rima con qualunquismo? Con populismo sicuro. Se a misura di tastiera meglio ancora.
E siamo davanti, disgraziatamente, a quella mutazione generazionale che ha visto docenti e genitori scoprirsi nemici: non più alleati di ferro, com’era tempo fa. A un certo punto i papà e le mamme hanno deciso che il soggetto da difendere era il figlio, a priori, e non l’autorità (che è, o dovrebbe essere, autorità intellettuale, simbolo dell’impegno e del dovere, riferimento morale). Difenderlo persino quando è un bullo, un poco di buono: “c’è da capirli, so’ ragazzi”. Una protezione compulsiva del cucciolo di casa, col rischio di farlo diventare – nel migliore di casi – un adulto viziato e rammollito; nel peggiore, un cittadino strafottente, prepotente, autoreferenziale, uno che sfida ogni giorno le regole sociali, il senso dello Stato, l’educazione sul posto di lavoro, i codici e i doveri di una comunità. Se vogliamo, è la stessa mentalità che scinde classe politica e società civile. Per cui, se la raccomandazione la cerca il cittadino è una povera vittima da capire, se la mazzetta la piglia il consigliere è “casta”, “schifo”, “tutti ladri” e “tutti a casa”. Mai che diventino, nella logica comune, due facce di una stessa perversione.
Cosa c’entri tutto questo con i compiti per le vacanze? Niente, magari. O forse moltissimo, se tale disobbedienza all’istituzione, avallata da mamma e papà, diventa metodo, misura, abitudine ed escamotage. Sempre.
Questo, però, non è e non vuole essere un discorso conservatore. Il tema non è non contraddire mai, non provare a ribaltare l’ordine delle cose, non prendere strade nuove ed inattese. Sarebbe un discorso che uccide ogni intuizione artistica, poetica, politica, intellettuale. Il tema è rispettare le leggi, intanto. Ma anche inventarsi una maniera per modificare lo status quo (a partire da un’urgenza, non per moda o per cliché). Stare dentro un sistema e sovvertirne dei piani significa cercare una via – certo più lunga e faticosa – che incida per davvero. Spingere più in là, spostare, riformare, generare nuovo senso e desiderio, nuove forme, sintassi, angolazioni. Insomma, una faccenda seria.
Ad esempio, studiare (anche) altro, studiare a modo proprio, scovare ciò che piace e sezionare quello che non piace fino a capovolgerne la percezione. E poi giocare, certo, e ancora giocare: davvero due ripassini estivi (non obbligatori, per carità, purché decida il prof.) impediscono di svagarsi e di riposare? Non si tratterà mica di una tesi di laurea o di un esame di ingegneria biomedica. E se i compiti sono davvero troppi e troppo pesanti, l’unica cosa da fare è parlarne con gli insegnanti, evitando di sminuirne l’autorevolezza davanti al ragazzino.
Troppo facile, allora, chiudere tutto e andare al mare. Troppo patetico consigliare la vita come maestra e la strada come palestra, che suona un po’ come l’insopportabile snobismo di chi bolla lo studioso come sfigato. Troppo pericoloso spedire a quel paese chi, in fatto di apprendimento, agli occhi del bambino rappresenta un punto fermo. E i bambini, di rifermenti, di simboli, di saldezza e di struttura, hanno bisogno tanto quanto di esperienze e di immaginazione.
Grave, infine, stigmatizzare (e ancora sminuire) il docente che insegnerebbe “nozioni”, preferendogli il genitore che insegnerebbe “a vivere”. Peccato che la nozione c’entri poco o nulla con l’avventura culturale, la quale passa – anche, ma non solo – dai compiti in classe, dalle odiate interrogazioni, da un paio di libri da leggere in estate. Ed è l’unica cosa che resta, della scuola: l’esercizio critico, la ginnastica concettuale, la visione, la curiosità, l’apertura, la passione. E la disciplina, pure. Alleata preziosa di domani, sul piano esistenziale e professionale. È qui che la cultura diventa chiave per decifrare il guazzabuglio delle cose concrete e immateriali; è qui che si impara, nozioni a parte, a ricavarsi opinioni autonome, autentiche, disallineate. E a perseverare. Studiare, in questo senso, rende liberi davvero. Altro che tre mesi (pur preziosi e sacrosanti) di ferie.
[in copertina: Tadeusz Kantor, La classe morta]
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