Scuola

Una scuola superiore unica per tutti i ragazzi italiani?

17 Dicembre 2022

Ho letto con interesse e, confesso, inizialmente anche con un certo sbigottimento, l’articolo di Maria Pia Baroncelli su Gli Stati generali avente lo stesso titolo di questo, ma privo del punto di domanda finale.

Il primo mancamento l’ho avuto quando ho letto “Le scuole tecniche e professionali vengono correttamente percepite dagli stessi ragazzi come scuole di serie B, perché lo sbocco lavorativo è principalmente quello dell’operaio e dell’impiegato esecutivo”. Mi pare un’affermazione grave e piuttosto ideologica a partire dal fatto che l’economia di un qualsiasi paese si basa sul soddisfacimento di bisogni reali o indotti e, tra questi, molti sono quelli che trovano soluzione nel lavoro di operai e impiegati esecutivi che mi pare vengano implicitamente quasi insultati da questo genere di considerazione. Il testo prosegue con “Solo il 10% di chi ha frequentato un istituto professionale e il 30% di chi ha scelto un tecnico si iscrive all’università, contro il 73% dei liceali”. Forse occorrerebbe un maggiore sostegno allo studio per le fasce deboli, ma corre l’obbligo rilevare la consueta dimenticanza di una parte del settore di formazione terziaria che è rappresentata dagli Istituti Tecnici Superiori, oggi ribattezzati Academy. Ancora, l’osservazione del mercato del lavoro ci mostra come di quel 73% di liceali poi laureati, troppo pochi lo sono in aree che hanno prospettive occupazionali, e preoccupa il 27% che non prosegue e che, evidentemente, in gran parte ha sbagliato indirizzo giacché se avesse scelto un tecnico o un professionale, probabilmente avrebbe avuto maggiori chance occupazionali. Non sfugge che, tra quel 27% ci siano anche i “figli di papà” che non hanno bisogno di continuare, trovandosi introdotti in aziende familiari dove conterà la gavetta che sarà prontamente loro fornita entro un quadro di privilegio, ma divago.

L’autrice sembra contraddirsi quando scrive che è “Difficile quindi convincere un ragazzo di tredici/quattordici anni a iscriversi agli istituti tecnici e professionali che tanto piacciono al Ministro Valditara, perché le aziende italiane vogliono operai da mandare in fabbrica il prima possibile”. Vale infatti la pena ricordare che l’obbligo scolastico oggi arriva fino a 16 anni, ma prosegue con quello formativo che arriva fino a 18 e che può interrompersi a 17 a seguito del conseguimento di un diploma triennale (erogato, oggigiorno, solo dagli enti di formazione professionale che, evidentemente, non sono neppure degni di essere nominati nell’articolo che commento).

A mio giudizio, i motivi per i quali è davvero difficile convincere un ragazzo o una ragazza ad iscriversi in un istituto tecnico o professionale sono principalmente i seguenti:

  • Il quadro orario dei tecnici e dei professionali è di 32 ore settimanali (33 in una tra la classe prima o seconda), mentre sono da 27 a 30 nei licei (in estrema sintesi e con una certa imprecisione). È quindi difficile convincere un/a tredicenne ad entrare a scuola alle otto e uscirvi alle due o alle tre, quando potrebbe uscire qualche volta, persino, all’una.
  • Esiste una implicita segregazione sociale che è di tipo geografico nella scuola primaria e secondaria di primo grado (vulgo “elementari e medie”), di altra natura è quella entro la quale ci siamo venuti a trovare nel tempo, nella scuola secondaria di secondo grado (vulgo “superiori”) che è legata all’indirizzo scelto. Nel primo caso le scuole sono “uniche” (sia la scuola primaria che la secondaria di primo grado hanno lo stesso ordinamento in tutto il paese), ma diversa è l’utenza del quartiere periferico da quello della zona nobile della città. Costruire una “scuola superiore unica” avrebbe lo stesso identico effetto.
  • L’orientamento scolastico avviene in seno ad una scuola secondaria di primo grado entro la quale sono quasi del tutto assenti insegnamenti di tipo tecnico o professionale e gli insegnanti stessi, che sono con percentuali bulgare essi stessi ex studenti liceali, sono generalmente incapaci di decentrarsi e consigliare il prosieguo degli studi in funzione delle aspirazione, caratteristiche e peculiarità del singolo individuo. In altre parole, l’orientamento è da rifondare completamente.

L’autrice che critico insiste: “I licei, invece, sono le VERE scuole che aprono le porte a una mobilità sociale ascensionale, perché chi li frequenta ha ottime probabilità di iscriversi all’università e proseguire verso una buona carriera professionale”. Se questo fosse vero, non assisteremmo continuamente alle lagnanze di una vasta schiera di professioni intellettuali, a titolo di esempio insegnanti, giornalisti e avvocati (molti dei quali, oggi, in coda per una supplenza), che sono molto scesi nella scala sociale a causa dello scarso reddito che questi mestieri erogano al giorno d’oggi. Al contrario, non è per niente raro che un operaio specializzato guadagni più di una persona che faccia un lavoro intellettuale. Lo scrivente è preside di un istituto tecnico nautico e gli studenti e le studentesse che dopo il diploma proseguono gli studi presso l’Accademia Italiana della Marina Mercantile (o in altro ITS sul territorio italiano) si ritrovano a ventuno anni ad essere “terzo ufficiale di macchine” o “terzo ufficiale di coperta” cosa che garantisce loro, al primo impiego, uno stipendio significativamente superiore a quello di ingresso di un insegnante. Non si tratta di ruoli “esecutivi”, ma di responsabilità, come sono ruoli di responsabilità quelli dei geometri o dei ragionieri che hanno assicurato la crescita del paese in tempi difficili.

La soluzione proposta da Maria Pia Baroncelli è quella di riprendere la strategia di sessant’anni fa, quando furono chiuse le scuole commerciali e istituita la “scuola media unica”. Cinque anni dopo fu edito “Lettera ad una professoressa” che denunciava la selettività di quel percorso che ha avuto bisogno di tantissime bocciature e violenza professorale per essere infine ricondotto all’inclusione garantita, troppo spesso ancora solo sulla carta, nella normativa attualmente vigente.

Mi pare di poter rilevare nell’articolo di Maria Pia Baroncelli un legittimo sfondo ideologico che guarda al mondo del lavoro con un certo disprezzo, avendo come stella polare il lavoro intellettuale seguente un titolo universitario, ma i problemi occupazionali dei tanti laureati in scienze della comunicazione, scienze politiche, giurisprudenza, psicologia, storia dell’arte e affini mettono in guardia da facili soluzioni.

Paradossalmente, nonostante premesse tanto diverse dalle mie aspettative, penso che sulle conclusioni si potrebbe serenamente discutere. In merito al “liceo unico” si potrebbe prevedere una transizione che inserisca in questo genere di percorso una materia obbligatoria, ma a scelta, di tipo tecnico-pratico perché è abbastanza evidente che l’uso delle mani sacrificato è un gravissimo problema nella società che stiamo costruendo. Il modello delle charter school non va respinto in toto, ma lo si può costruire in seno alle scuole autonome che, come illustrato da Marco Campione ed Emanuele Contu in “Liberare la scuola” (il Mulino), dovrebbero essere lasciate in grado di evolvere in quella direzione.

In conclusione, c’è da ricostruire un rapporto scuola-società che contemporaneamente incarni le esigenze di costruzione della persona nel senso di cittadino critico, costruttivo e responsabile, ma che non trascuri le intelligenze pratiche che sono del tutto assenti in tanti curricola liceali. Per raggiungere tutti questi scopi, di certo la scuola attuale va ridiscussa e ben vengano le proposte provocatorie di ogni foggia che possono contribuire ad alimentare il dibattito.

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