Scuola
Tutte le Università che servono all’Italia
«Non so se è pregio o colpa esser fatti così: c’è gente che è di casa in Serie B», cantava Guccini in Gli amici fin dal lontano 1983.
C’è chi in Serie B ci fa solo un passaggio per approdare ad altri lidi, chi ci sta sempre e si trova a proprio agio, e chi ci va controvoglia e come ripiego.
Resta il fatto che se la Serie B non ci fosse, qualcuno dovrebbe inventarla.
Cosa c’entra chi, più o meno controvoglia, è di casa in Serie B con le nostre Università? C’entra eccome.
Se prendessimo atto che le nostre Università non sono tutte uguali e giocano in campionati diversi?
E se, dopo averlo fatto, ci comportassimo in modo coerente e dicessimo apertamente che esistono realtà che si avvicinano di più alle Teaching University e altre che hanno tutti i crismi delle Research University (istituzionalizzando una realtà che già esiste)?
E se, dopo averlo messo nero su bianco, le risorse venissero allocate tenendo conto dei diversi orientamenti strategici degli Atenei?
La ripartizione del Fondo di Finanziamento Ordinario 2017 (FFO) alle Università pubbliche sta generando un certo dibattito, autorevole e fondato su basi solide, che denuncia il disallineamento tra le performance raggiunte dagli Atenei sui parametri obiettivo (qualità della ricerca, qualità della didattica, politiche di internazionalizzazione, reclutamento dei giovani) e i criteri utilizzati per il trasferimento dei fondi, che in realtà penalizzano le Università più virtuose a vantaggio di quelle più indietro (Michele Bugliesi, Rettore di Ca’ Foscari, spiega in questa intervista il meccanismo che genera il fenomeno).
Alcuni autorevoli interventi hanno segnalato che questo meccanismo deprime la propensione a miglioramento continuo, riduce la qualità e vanifica il lavoro fatto fino ad ora.
È evidente che chi lamenta queste distorsioni, lo fa con cognizione di causa e dice cose corrette: insomma, ha ragione senza se e senza ma.
Però, c’è un però.
Può lo Stato italiano permettersi di adottare un sistema di performance management e di allocazione delle risorse che porti all’aumento delle distanze tra gli Atenei?
Può il nostro Paese permettersi di avere un sistema universitario sempre più polarizzato e incentivare queste differenze, invece di sforzarsi per ridurle?
Con l’attuale sistema istituzionale, la risposta è «no, non può permetterselo» ed è anche velleitario reclamarlo, perché è (praticamente) impossibile essere presi in considerazione.
Meglio far intravvedere allo Stato che esiste una soluzione autenticamente «win-win», dove tutti gli attori in gioco possono dire di aver vinto qualche cosa, perché sono messi nelle condizioni di valorizzare ciò che sanno fare al meglio.
Senza pretesa che sia l’unica, la distinzione tra realtà tipo Teaching University e altre tipo Research University può avvicinarci a questo risultato, perché permette agli Atenei di specializzarsi e di comunicare alla società, alle famiglie e alle imprese qual è il proprio posizionamento e il valore che si impegnano a generare e trasferire. È evidente che tra i due estremi, Teaching e Research, ci possono essere varie soluzioni intermedie, perché gli Atenei non sono uniformi al proprio interno. È altrettanto evidente che servirebbero anche altri cambiamenti (ad esempio, regole più semplici per la mobilità dei docenti tra Atenei). Ma il concetto di fondo non cambia: le differenze esistono e invece di ignorarle, è meglio creare i meccanismi per valorizzarle.
Questo ragionamento è al rialzo (ma mai sopra le righe) e non al ribasso, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale.
È una delle poche strategie che può attivare un rinnovamento accettabile (ovvero, con consenso diffuso) e nobilitare le diverse attività che si svolgono dentro le Università.
Qualcuno potrebbe pensare che solo pochi studenti e poche famiglie ambiranno a frequentare i corsi di laurea di un Ateneo che agisce in prevalenza come Teaching University e che tutti vorranno andare in quelli qualificati come Research University, perché giocano in Serie A. La realtà è un po’ più articolata.
Se questo qualcuno ci fosse, risponderei con un capolavoro degli studi organizzativi che spiega come funzionano le organizzazioni complesse (come lo sono sia la nostra società contemporanea e le nostre Università, sia le aspirazioni delle nuove generazioni e delle loro famiglie):
«Immaginate di essere arbitro, allenatore, giocatore o spettatore di una singolare partita di calcio: il campo ha forma circolare; le porte sono più di due e sono sparse disordinatamente lungo i bordi del campo; i partecipanti possono entrare e uscire dal campo a piacere; possono dire “ho fatto goal” per quanto vogliono; in ogni momento e per quante volte vogliono; tutta la partita si svolge su un terreno inclinato e viene giocata come se avesse senso».
Situazioni come quella descritta sono tutt’altro che infrequenti. Assecondiamole con metodo, progettualità e visione, tenendo presente che non tutti vogliono o possono giocare in Serie A e altri sono di casa in Serie B.
Nota: la foto di copertina è di Andrea Ravanetti
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