Scuola
Sintomi e sogni (a scuola)
Prima impressione di questi primissimi giorni di scuola-organizzazione: è decisamente un azzardo iniziare pensando ad una didattica in presenza. Capisco la buona – ottima – volontà da parte di insegnanti, dirigenti, istituzioni etc. Protocolli, profilassi, mascherine, distanziamento, igienizzazione delle mani, sanificazione dei locali, areazione, auto-dichiarazione, monitoraggio della febbre, dispositivi di ricognizione automatica della febbre, «aula covid» (sic)…Capisco anche il desiderio dei ragazzi di tornare in classe, il bisogno di normalità, di ritrovare calore dei corpi. La scuola è non solo lezione, è anche corpi che si muovono, il primo nucleo pubblico del corpo sociale. Il loro diritto, innanzitutto, ad avere scuola, e il desiderio profondo, inconscio, di tutti che ciò che stiamo vivendo non sia che un «incubo» da cui ci dobbiamo svegliare. Realtà da incubo, «realtà incuba» (“di” incubo), oniricamente terrificante. (Credo che da questo dipenda molto di quello che chiamiamo “negazionismo da covid”, e non solo dall’ignoranza, altrimenti non si spiegherebbe perché vi indulgano anche persone acculturate, quando non taluni medici).
Capisco tutto.
Ma c’è il chiodo della realtà che ci fa pensare. Tre piccoli chiodi, a cui sono attaccati i picchetti della tenda della speranza, ed è molto probabile che al primo refolo di contagio, tutto crolli di nuovo. Si chiuda tutto. La percezione collettiva – non detta – è questa. Chiunque lo pensa. In inglese si dice: the elephant in the room.
Aggiungo una nota personale: il solo mettere piede in un istituto scolastico ridotto a sanatorio, spogliato dei segni di vita della scuola, degli armadietti, dagli appendi cappotti, delle mensole dei libri, del «contagio affettuoso degli sguardi e degli abbracci», mi getta in una angoscia estrema. Pensare di fare un anno così, mi prostra e avvilisce. Non penso di averne le forze. E non parlo di «sentimento», parlo di Sintomi. E di Sogni: di tornare alla normalità.
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