Scuola
Cosa fare per migliorare le competenze logiche degli studenti italiani?
In breve. Le competenze logiche sono onnipresenti nei test universitari di ammissione alle facoltà a numero chiuso, e sono necessarie sul lavoro, ma per ora i risultati non sembrano, in generale, eccellenti. Cosa fare per migliorare le competenze logiche dei diplomati italiani? E perché farlo? Alcune ragioni e qualche proposta.
Recentemente, nella mia scuola in viale Marche a Milano (iiscremona.gov.it) è stato approvato il cosiddetto piano triennale dell’offerta formativa, cioè, per chi non fosse pratico del linguaggio per iniziati della pubblica istruzione, il piano orario, i progetti di tutti i tipi, i corsi extra(curricolari) che la Preside e il Collegio docenti hanno pensato di poter realizzare nei prossimi tre anni. Su queste basi i genitori sceglieranno la scuola, ma su queste stesse basi un’istituzione scolastica si presenta al mondo esterno (il “territorio”) e soprattutto a sé medesima. Il fattore decisivo, ai tempi della “buona scuola” è che, sempre su queste stesse basi, si decidono i finanziamenti per tutte le attività proposte (dai corsi di lingua cinese e inglese, all’italiano per stranieri, alle attività sportive e laboratoriali) e le assunzioni triennali (il cosiddetto “potenziamento”, cioè docenti in più oltre lo stretto necessario) che, nel nostro caso sono ben dodici.
Queste poche note servivano per contestualizzare ciò di cui parleremo ora: la logica a scuola.
Sì, perché dal 28 maggio del 2015 in poi i vari quotidiani nazionali hanno iniziato a presentare ( chi bene, chi male), l’ultimo rapporto dell’OCSE dedicato alle abilità e alle competenze (le cosiddette “skills”) degli studenti italiani (confrontati con quelli degli altri paesi partecipanti alla valutazione comparata). Probabilmente, i lettori sapranno che i nostri risultati non sono, per usare un eufemismo, veramente eccellenti. Certo, come è doveroso, precisiamo che a seconda della tipologia di scuola (liceo scientifico, classico, istituti tecnici e professionali, non necessariamente in quest’ordine), della regione, della città e della scuola i risultati possono essere molto diversi. E sicuramente c’è chi è andato peggio rispetto a qualche anno fa, il che ci ha permesso di scalare qualche posizione… e di leggere titoli trionfalistici. Ma il problema è serio. Soprattutto perché non sembra che si voglia prendere sul serio l’esigenza di migliorare i propri risultati.
Gli studenti dovrebbero possedere queste skills a un buon livello, almeno per i seguenti motivi: 1. perché viene richiesto dalle università; 2. perché lo richiede la buona scuola (si veda l’articolo primo della legge); 3. perché le aziende iniziano a selezionare i candidati con prove di logica (e di competenze linguistiche) simili a quelle ormai da tempo introdotte nelle università anglosassoni; ma, soprattutto, 4) perché una persona colta che non sa ragionare impara solo a ripetere meccanicamente quanto si trova sui libri (oggi, su wikipedia, la cui autorevolezza è quantomeno dubbia, visto il metodo di redazione delle pagine e il rifiuto di farle vagliare da esperti riconosciuti) o quanto ha spiegato l’insegnante.
Un diplomato che non ha impreso a ragionare in prima persona non possiede pensiero critico (quello che gli anglosassoni chiamano Critical Thinking e che da tempo l’editore Mimesis cerca di diffondere con una collana a esso dedicata) – o, se chiama così il suo modo di argomentare, in realtà si limita a leggere la realtà con occhiali ideologici, cioè, ad interpretarla sulla base di ciò che, senza prove e a priori, è già presupposto. La posizione ideologica è immune da qualsiasi confronto con la realtà che potrebbe metterla in discussione o “falsificarla” (per farvene un’idea vedete qui): in breve, cerca solo prove a favore e respinge come false e inaccettabili quelle che la contraddirebbero. Sì, chi non sa ragionare basa le proprie azioni e la propria interpretazione della realtà sul principio del sospetto (è tutta colpa del comunismo, del demonio, dell’Occidente, dell’euro, del capitalismo, della finanza internazionale, o, visto che attualmente abbiamo un ex sindaco al governo, di Renzi).
Ecco: questo è ciò che la buona logica dovrebbe permetterci di evitare. Essa rappresenta, come sostengono Paolo Legrenzi e Armando Massarenti (vedi qui), “il nucleo propedeutico ai numerosi saperi fondati su modelli e strumenti matematici”. Questa capacità permette di avere risultati migliori all’Università (che, almeno in linea di principio, la richiede) e nelle professioni: è come una cassetta degli attrezzi (un “coltellino svizzero”, per usare la metafora di Legrenzi e Massarenti).
Perché questa cassetta degli attrezzi è assente dal mondo della scuola? (O quasi: nella nostra scuola c’è, e ci stiamo lavorando da tempo, anche se ancora cerchiamo una uniformità di intenti.)
Forse, gli insegnanti (se mai sono stati formati, perché, come sappiamo, la formazione degli insegnanti è un altro annoso problema) non sono certo stati formati per aiutare gli studenti ad acquisire, esercitare, potenziare il pensiero critico. Da decenni, le valutazioni sono basate esclusivamente sui contenuti, e solo negli ultimi anni (anche grazie ai confronti internazionali disastrosi) è emersa la questione delle competenze o skills.
Bene, si potrebbe dire, la scuola non insegna la buona logica. Pazienza. Insegna (è vero) tante altre cose. Sarà. Ma allora perché tutti richiedono che queste abilità, capacità, competenze (decidete come chiamarle, purché ci si intenda: le skills) siano possedute? Sì. Non solo le università e il mondo del lavoro, ma persino i colleghi e le colleghe con i quali discuto mi parlano spesso dello scarso senso critico degli studenti, del fatto che apprenderebbero in modo meccanico, riproduttivo… quando questo è troppo grave, tirandosi da sé la mazza sui piedi, dicono che gli studenti possiedono una preparazione “scolastica”. Ahinoi! Dovrebbe essere un complimento. Dovrebbe essere il massimo della vita, e invece è diventato un termine connotato negativamente. Vuol dire che abbiamo sbagliato tutto, e che è ora di cominciare a riflettere, senza delegare i giornali, l’onnipresente rete, il blog di Beppe Grillo (che tanto critico non è, ma solo sospettoso, vedi per esempio qui e qui), i salotti televisivi che, quando stimolano alla discussione, la trasformano in aggressione verbale, dove più che prove e argomenti a sostegno delle proprie conclusioni si presentano solo le proprie opinioni (che, magari, vengono chiamate “ragionamenti”).
Di cosa c’è bisogno?
Alcune indicazioni sulle singole abilità richieste per lo sviluppo delle competenze logico argomentative.
Bisognerebbe essere in grado di aiutare gli studenti a valutare i diversi significati di un termine, dipendenti dal modo in cui esso è usato, evitando le ambiguità. Tutti i docenti, quando formulano le loro domande (interrogazioni e verifiche scritte) chiedono di dare definizioni (qualcuno chiede di applicare le regole apprese, altri, ancora troppo pochi ma in crescendo, di risolvere i problemi individuando le regole da applicare o inventando nuove regole utili allo scopo), ma quanti spiegano come si definisce bene? Ecco la seconda esigenza, e la seconda capacità da esercitare, per potenziarla.
Bisognerebbe distinguere tra i ragionamenti che consistono nell’applicazione di una regola (deduzioni), quelli che permettono di formularla (come ipotesi o, con Peirce, “abduzioni”), quelli che consistono nel tentare di provare (accettandole fino a prova contraria) e falsificare le proprie ipotesi (scartandole), che chiameremo induttivi, che sono quelli usati negli esperimenti scientifici (con ipotesi e previsioni che, qualora non si verificassero inficerebbero l’accettabilità dell’ipotesi, gruppo di controllo). E, una volta compresa la differenza, dovremmo anche abituarci a praticarle, queste benedette logiche deduttive, abduttive, induttive. Con metodo, imparando a conoscere gli errori tipici ed esercitandoci a individuarli in primo luogo in noi, e negli altri, per evitarli e per non essere indotti a errare. E imparando le procedure per la risoluzione di problemi.
Bisognerebbe conoscere le tecniche della persuasione e gli argomenti tipici usati nel dibattito pubblico (per esempio, il ricorso all’autorità dell’esperto, l’argomento delle conseguenze, positive o negative, il ricorso ai sentimenti, di odio o di compassione, gli attacchi personali), perché questi, detti “topica” (i luoghi comuni) sono potenti generatori di argomenti che potrebbero essere usati per persuadere, ma anche perché dobbiamo essere in grado di riconoscerli per non farci persuadere troppo facilmente.
Non può mancare l’esercizio della capacità di dibattere in modo regolamentato (vedi il sito di Weworld, la struttura della discussione corretta, le regole di Botta & risposta e il Galateo della discussione), proprio perché è ciò che invece manca ovunque, ma anche perché ogni dibattito richiede una preparazione o ricerca delle fonti e delle prove, una impostazione degli argomenti e delle proprie posizioni, un’analisi degli argomenti degli oppositori nei loro punti di forza e nelle loro debolezze, uno scambio nel merito e una valutazione da parte di giudici esterni (che devono però essere formati bene, per non farsi guidare dalle sole emozioni); infine, perché, oltre a essere questa la base di una tesi universitaria o di ricerca (che cosa diciamo di nuovo con il nostro lavoro, in cosa ci distinguiamo da quello altrui, quali prove portiamo a sostegno della nostra tesi e/o perché le altre posizioni sono difettose?), è dal confronto con chi non la pensa come noi che ci rendiamo conto che le cose sono più complesse di come pensiamo e impariamo a rispettare i nostri interlocutori anche quando non la pensano come noi.
In conclusione, questi esercizi di pensiero dovrebbero essere un obiettivo condiviso, il più importante, di tutte le istituzioni scolastiche. E dovrebbero coincidere con quelle competenze trasversali comuni a tutte le discipline, perché senza di esse il sapere scolastico diventa riproduttivo e insoddisfacente, facile da dimenticare una volta finita la scuola.
Invece, chi si dimentica del metodo socratico, una volta che l’ha praticato? E chi di come si imposta un esperimento con un gruppo di controllo per verificare l’efficacia di una nuova molecola terapeutica o dell’omeopatia?
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