Scuola

Ritorno tra i banchi – segni di speranza

18 Settembre 2020

Secondo alcuni faccio “il mestiere più bello del mondo” – insegnare – , e nonostante in altri tempi ne misurassi anche la fatica, ora a tratti mi rendo conto che lo è davvero. Stare a contatto con l’energia della vita propria dei giovani, con lo stupore della conoscenza nascente, della curiosità e del tentare a fatica di formarsi attraverso il tuo apporto educativo. Uno dei risvolti positivi del Covid – del lockdown, con tutto l’effetto di estraniamento che viviamo da sei mesi in qua – è stato di centrare l’attenzione sulla scuola come istituzione chiave (insieme alla sanità) del nostro vivere civile. E non farò le solite lamentele sulla scuola che non funziona, sulle arretratezze , sui banchi che non ci sono ancora, sul personale scolastico non sufficiente, e ancora non convocato. E’ quasi fisiologico – si sa.

Stavolta tuttavia si avverte che qualcosa è cambiato, nello scambio di sguardi ritrovati, dietro le mascherine, nei sorrisi contagiati dagli occhi, nella voglia di parlare, di comunicare, di relazionarsi, che ogni insegnante sta sperimentando in questi giorni a scuola. Per me l’inizio – dopo questa lunga parentesi di insegnamento a distanza (che mi è costata molto in termini di fatica psicologica) – è coinciso con un cambio di realtà scolastica. Troppi anni in uno stesso posto, anche se a pochi minuti da casa tua, non vanno bene: bisognava cambiare. Ho trovato una nuova realtà, per alcuni aspetti un po’ più caotica ed arruffata, ma comunque vitale e piena di promessa (categoria teologica, lo so, ma qui “ci sta” proprio – come dicono i ragazzi). Ho iniziato chiedendo a loro, ad ognuno di loro, di presentarsi, di dire perché aveva scelto proprio quella scuola, di dirmi il loro nome, qualche caratteristica di sé, e se gli piacevano le materie che insegno. Era un modo per farli parlare – avevano bisogno di parlare – di staccare lo sguardo dal cellulare, dal desktop, dal tablet, dalla digitalità sperimentale di questa sospensione ansiosa in cui la scuola – ma più in generale la società – sta vivendo.

Poi ho detto qualcosa anche di me, e ho visto che erano contenti. In fondo non bisogna avere paura, «i ragazzi ci guardano», e vogliono che siamo autentici, che non mimiamo una amicalità da pari per compiacerci negando la nostra responsabilità di adulti, ma che siamo pienamente adulti al loro servizio. Adulti in ascolto dei loro bisogni.

Forse la scuola si è dovuta ritrovare – nonostante la biopolitica forzosa delle procedure di profilassi immunitaria – un po’ più comunità di vita e di apprendimento e un po’ meno azienda, agenzia di formazione del “capitale umano” (locuzione ideologica, ma che non ci si rende conto essere appunto tale).

Non mi fido dei “filosofi” del Covid: spacciano le loro opinioni per diagnosi epocale, non ricordandosi il monito di Hegel, per il quale solo alla fine di un processo storico potremmo ricapitolare nel concetto quello che è successo.

La civetta si leva sempre al crepuscolo. E la civetta è il nostro animale totemico, non dico solo dei filosofi, forse di ogni essere pensante e riflessivo.

Però quello che – qui e ora – mi sembra di percepire – è una rinascita del bisogno di relazioni calde, corte e immediate. Paradossalmente la distanza fisica imposta dal distanziamento dei banchi, dalle mascherine, dai presìdi igienici, fa risaltare quello che tutti noi siamo: siamo in un tempo – la skolè – libero e liberato dal ritmo coribantico della produzione e del consumo (e dello sfruttamento del lavoro per molta parte di popolazione vittima di questo capitalismo avanzato). L’interruzione – cifra del momento di contagio e pandemia in cui siamo piombati – ci fa ritrovare un po’ più di essenzialità. Come quando esci da una malattia, ti gusti la vita ritrovata, ogni momento con il suo sapore e profumo, così dopo la forzata reclusione di autismo condiviso impostaci dal Covid – stiamo recuperando il bisogno di comunità, di umanità, di relazione. Di tempo per stare in relazione “di vita e apprendimento”. Ma anche – forse – una società più bisognosa di socialismo. Di un socialismo personalista e post-immunitario.

 

 

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