Scuola

Quello che (non) mi ha insegnato Lorenzo Milani

26 Giugno 2017

Accade, con i grandi autori – che siano poeti, preti, architetti, scienziati, artisti, musicisti, o economisti, o vattelapesca, non cambia – come con le grandi città: com’è naturale e giusto che sia, ognuno, anche chi non le abbia mai conosciute o visitate o frequentate, ne parla e scrive, ognuno vi trova (o non trova) cose differenti, angoli belli e angoli brutti, cose buone e cose cattive, prospettive nuove o insulse; ma, ed è questo un segno della loro vera grandezza e importanza, anche gli orrori e gli errori, che incontriamo nelle città come nelle opere degli autori, sono significativi e istruttivi.

Seppur solo nei primi vent’anni della mia vita  – ma non sono quelli della formazione gli anni fondamentali della vita di ognuno di noi? -, ho conosciuto bene Lorenzo Milani. Lorenzo era figlio di Alice Weiss, una delle migliori amiche fiorentino-milanesi di mia nonna; quand’era studente, abitava nella stessa strada milanese (parrocchia di Santa Maria della Passione) in cui abitavano i miei nonni e mio padre (e in cui sono nato io); Lorenzo andò nello stesso liceo (il Berchet, anche il mio, vent’anni dopo) e nella stessa sezione (la ‘mitica’ sezione A) di mio padre, di mio zio, e di suo fratello (Adriano Milani): si frequentavano anche fuori di scuola, anche nelle vacanze; al Berchet, Lorenzo ebbe lo stesso professore che all’università  insegnò a me, una generazione dopo, la filosofia antica (il grande grecista Mario Untersteiner); da prete, accompagnato dai suoi ragazzi di Barbiana, veniva a dir messa nella nostra cappella di famiglia.

Ma non voglio ricordare, qui, adesso, l’uomo, il prete, che ho conosciuto, ciò che mi ha detto o non detto – e spesso il non detto è, come ben si sa, il più importante. Voglio invece dire perché, e come, se sono l’educatore e l’economista che sono, lo devo, in parte (ma è una parte importante), a don Lorenzo e alla sua opera.

Lorenzo Milani muore esattamente cinquant’anni fa, il 26 giugno 1967. Un mese prima, nel maggio del ’67, era uscita la Lettera a una professoressa.

In quell’estate, dopo la maturità, in attesa di iniziare i miei studi universitari (allora, nell’università italiana, l’anno accademico iniziava a novembre) ero a Londra ospite dei miei zii paterni (ho una zia anglo-scozzese). Una Londra mille anni luce lontana, non diciamo da Barbiana, ma soprattutto dalla Firenze di allora, dalla Firenze di La Pira, di don Milani e del cardinale Florit. Era la “swinging London” dei Rolling Stones, della minigonna, dei Beatles, di Blown Up di Michelangelo Antonioni, di Radio London, delle droghe (di cui, fino ad allora, io adolescente non sapevo praticamente nulla, come quasi tutti i miei compagni italiani), di Carnaby Street, dell’antipsichiatria di Laing e Cooper, della libertà sessuale (di cui peraltro qualche cosa noi studenti milanesi sapevamo: l’inchiesta sul sesso fatta dagli studenti del Parini nel 1966 aveva fatto scandalo e portato addirittura a un processo. Noi berchettiani, insieme agli studenti delle altre scuole milanesi, eravamo scesi in piazza a difendere i nostri tre compagni denudati in Questura per ispezione corporale, e quindi portati in giudizio “per oscenità”; il padre del mio compagno di scuola Giuliano Pisapia era nel collegio di difesa). Nel febbraio del 1967 c’era stata la prima occupazione di università, a Pisa, ma è nel novembre del 1967 che scoppierà la “contestazione” italiana e inizierà il Sessantotto italiano, con l’occupazione dell’Università Cattolica di Milano: “Dio ci ha dato la libertà, la Cattollca ce l’ha tolta”, diceva un cartello issato dagli studenti di Largo Gemelli. Anche internazionalmente, il 1967 fu un anno particolarmente agitato e importante. In America latina vi era la guérrilla con alla testa Che Guevara (che poi fu ucciso nell’ottobre dello stesso anno), e proprio in quei mesi estivi  Régis Debray, al seguito appunto del Che, era stato catturato e torturato dalla polizia militare boliviana. Tutti i giornali del mondo ne parlavano e scrivevano (come, peraltro, da Le Monde al New York Times, dalla NZZ al Times, avevano fatto anche per il “caso Zanzara”).

E’ proprio alla luce di queste vicende che è possibile capire il dilemma che allora si poneva a uno studente engagé, come si diceva allora (come si direbbe oggi? politicamente impegnato? Non è proprio la stessa cosa, ma “ci sta”).

Da un lato, c’era una strada estrema: andare in Sudamerica, a Cuba o in Bolivia, a fare la rivoluzione (e, pensavo io allora, freddo e realista molto più di oggi, a farsi torturare e quindi ammazzare). C’era anche una versione più moderata, di questa scelta: andare, sempre (non a caso) in Sudamerica, a fare il missionario, laico o religioso non importa, ad aiutare i poveri del mondo, a costruire ospedali o scuole – ma, notate bene, sempre lontano dal ‘nostro piccolo mondo antico’,  l’Europa, ‘culla della Civiltà e della Cultura’.

Dall’altro lato, c’era una strada più, come dire, ‘tradizionale’: restare qui, nella vecchia Europa, e studiare studiare studiare (senza peraltro mai dimenticarsi del cosiddetto ‘resto del mondo’ – che, comunque, si poteva andare a visitare nelle lunghissime, allora, vacanze, e anche, magari partecipando, a qualche progetto di aiuto, o culturale o sociale, e anche lì, se volevamo nel “terzo mondo”).

Si dice sempre che, del Sessantotto, la Lettera a una professoressa è stata uno dei testi chiave, una delle sue bandiere, uno dei suoi simboli, comportando ciò, inevitabilmente, un giudizio sul ‘maestro’, cattivo o buono (in conseguenza del giudizio sul ’68) – cioé Lorenzo Milani, l’autore, insieme ai suoi ragazzi, del libro. Io non so bene (dovrei studiare meglio questa questione, che peraltro è piuttosto il compito di uno storico) quanto di vero ci sia in questa idea, cioé nell’idea di una influenza determinante della Lettera a una professoressa sul ’68; e se questa influenza (che penso ci sia stata, in qualche misura) sia stata benigna o funesta. Ma una cosa so. Io, nell’estate del 1967 ho scelto la seconda strada: da Londra, in ottobre sono ritornato a Milano, e a novembre ho iniziato a studiare filosofia antica col vecchio maestro di don Lorenzo, Mario Untersteiner (e con altri docenti, naturalmente; e partecipando, come mi era più naturale, da una posizione di sinistra non estremista, al “movimento” (se proprio siete curiosi, io ero vicino alle posizioni politiche de “Il Manifesto”, e piuttosto contrario al “Movimento Studentesco” di Mario Capanna)). Io non ebbi dubbi: avrei scelto questa strada in ogni caso. Ma, ecco il punto interessante, il punto generale (e non solo personale) è che c’erano, allora, parecchi maestri, a me anche molto vicini, che spingevano noi giovani, noi studenti, noi privilegiati per censo e cultura, verso la prima strada. Che, addirittura, ci accusavano di immoralità, poiché preferivamo le armi dei libri e della cultura alle armi vere e proprie, o di pavidità e mancanza di coraggio (se non proprio di vigliaccheria), perché non ci calavamo sul volto il passamontagna e non imbracciavamo una spranga.

Ebbene, in don Milani, nel suo esempio, nella sua opera (non solo nella Lettera, ma anche, e forse soprattutto nelle sue Esperienze pastorali)  io trovai, allora, un sostegno fortissimo a seguire rigorosamente la mia strada. Lorenzo mi aveva, mi ha, insegnato due cose fondamentali: la non violenza innanzi tutto e, quindi, che si deve sempre cercare di aiutare il prossimo, ma che il tuo prossimo è proprio quello ‘letterale’, cioé quello vicino a te. Prossimo è l’opposto di nemico, è l’amico. Non c’è bisogno di andare in Bolivia o a Cuba; basta prendere la metropolitana e andare a Crescenzago. Dirò di più. Don Milani mi ha insegnato che, se scendo da casa, e al bar sotto casa trovo dei ragazzi ricchi e privilegiati, jeunesse dorée, che studiano in Bocconi (perché, appunto, ricchi e privilegiati), e devono fare l’esame con chi, magari, io ho messo in cattedra, beh, io sono più che disponibile ad aiutarli a prendere trenta e lode all’esame (esattamente come aiuto qualsiasi perseguitato del mondo che qualche dio mi ha fatto incontrare nella mia città, e che magari non conosce neppure bene l’italiano o la geografia).

Per quanto possano valere il mio giudizio, e la mia esperienza, don Milani non è stato affatto un“cattivo maestro”, al contrario. E al contrario di quanto leggo (da parte di alcuni, non di tutti, ovviamente).

Aggiungo, infine, una considerazione, che mi riporta a quanto dicevo all’inizio (in che senso e i che modo sono l’educatore e l’economista che sono e sono diventato).

Due sono i preti cattolici che più mi hanno influenzato (non sono stato influenzato solo da preti – come è, a tutti quelli che mi conoscono, chiarissimo, e c’è almeno un altro prete, non cattolico, da cui ho imparato molto). Forse non è un caso, ma sono entrambi ebrei. Spiego in che senso questo sia una cosa importante (per me, che sono molto laico). Entrambi (uno è stato allievo diretto di Ludwig Wittgenstein, il filosofo più importante per il mio mestiere di economista, e non solo per il mio mestiere, ma per la mia etica; inoltre, è stato, come Wittgenstein, allievo nel mio stesso College, il Trinity di Cambridge – e questo è un legame molto forte, come quello con l’Università degli Studi di Milano) sono stati maestri di scuola, degli educatori, ed entrambi hanno dato preminenza al linguaggio, all’importanza delle parole che usiamo nella vita ordinaria. Anche grazie al loro esempio, io ho insegnato interi corsi di Economia politica usando soltanto i dizionari: il Battaglia, il Littré, l’OED, il Gradit, il Cortelazzo-Zolli, il Rey e, soprattutto, il Benveniste.

Non posso (soprattutto da quell’economista che sono) non terminare con una citazione dal Vangelo di Luca, nella traduzione del testo originale integrale fatta da don Lorenzo: “l’uomo non vive di solo pane e casa, ma di scuola e di pensiero e di libertà interiore… perché da queste si passa direttamente alla fede e alla vita eterna, mentre dal pane e dalla casa si può tranquillamente passare alla televisione e al cine”.

(Preciso: io non vedo la televisione dal secolo scorso, ma posseggo tre apparecchi televisivi, tre opere d’arte (una Bang&Olufsen, il Cubo di Marco Zanuso e Richard Sapper, una televisione di Philippe Starck), e adoro il buon cinema, come mezzo per comprendere il mondo, godere del mondo, e insegnare l’economia politica. Non sono dunque del tutto ‘allineato’ col pensiero di Lorenzo Milani.)

 

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