Scuola
Quello che la #buonascuola non dice
Il processo di riforma della scuola che il governo Renzi auspica di avviare è un dato politico tanto rilevante quanto delicato. Rilevante poiché una riforma della scuola italiana è necessaria. Delicato poiché poche altre questioni sono distorte da appartenenze ideologiche come il tema della scuola.
Se ci fermiamo alla superficie, i principi generali sui quali il governo fonda le sue proposte sono totalmente condivisibili: un’alternanza istituzionalizzata tra esperienze scolastiche e lavorative; un consapevole equilibrio tra materie scientifiche e umanistiche nei programmi; l’eliminazione delle graduatorie e l’introduzione di concorsi; maggiori retribuzioni per gli insegnati; valorizzazione del merito; valutazione di insegnanti, studenti e istituti; maggiore autonomia nelle decisioni organizzative e didattiche.
Tuttavia, il problema consiste nel fatto che il disegno di legge proposto è molto fumoso riguardo al come attuare questi principi generali. Prendiamo come esempio il famigerato punto dei “dirigenti manager”. La proposta consiste nell’aumentare i poteri dei presidi: i futuri dirigenti decideranno come impiegare le risorse e come organizzare l’offerta formativa triennale scegliendo i docenti tra quelli iscritti ad un albo territoriale. Il principio alla base di questa proposta vede nell’autonomia una via per aumentare l’efficienza organizzativa e didattica degli istituti. Ma senza conoscere certi meccanismi attuativi, non è possibile esprimersi sulla bontà della proposta.
Quali meccanismi istituzionali sono pensati per responsabilizzare i dirigenti rispetto alla qualità dei servizi offerti dal loro istituto? La responsabilizzazione dovrebbe essere realizzata attraverso trasparenti valutazioni di organi terzi ed indipendenti (senza lunghi processi burocratici che tolgono energie e tempo agli insegnanti). Queste valutazioni dovrebbero essere guidate da una chiara individuazione degli obbiettivi da perseguire e dei criteri in base a cui valutare. Questi criteri dovrebbero essere comparabili e misurabili. Su questo punto nulla si dice nel disegno di legge. Quando se ne parla il livello di fumosità è devastante.
Si potrebbe continuare elencando altre omissioni dello stesso tipo: se un docente scelto dal dirigente si rivela inadatto come ci si comporta? Come viene valutato il singolo insegnante? È preferibile una valutazione singola o dell’intero corpo docente? Tutta la possibile bontà della proposta del “dirigente manager” si basa sull’efficienza, la trasparenza e l’indipendenza di un tal sistema valutativo. Senza le specificazione (nei particolari!) delle sue caratteristiche la proposta non è pienamente giudicabile ed è esposta a facili critiche.
Anche le altre componenti del disegno di legge presentano molte fumosità di questo tipo, le quali vengono sistematicamente nascoste dalla retorica meritocratica con cui il premier cerca di impacchettare le proposte. Infatti, come sottolinea Luca Ricolfi sul Sole, le proposte che avranno più impatto sul futuro della scuola sono presentate attraverso roboanti slogan meritocratici ma nascondono una natura assistenzialista. Si pensi alle assunzioni dei precari delle graduatorie: è un intervento giuridico ad hoc per risolvere un problema di regolarizzazione dei contratti precari senza nessun ragionamento di natura meritocratica. Quali sono gli strumenti per capire se i nuovi assunti hanno le carte in regola per svolgere il loro mestiere? Non sto dicendo che non sia politicamente e giuridicamente necessario chiudere definitivamente le graduatorie; ma solo che un provvedimento del genere non può essere presentato come una “riforma della scuola”.
Infatti, la critica più profonda che si può fare al decreto sulla scuola consiste nel suo non essere una riforma della scuola. Piuttosto si tratta di un insieme di provvedimenti che potrebbero avviare un processo di riforma ma che non toccano ancora le debolezze croniche del sistema italiano. Quali sono queste debolezze?
La scuola secondaria italiana ha tre grandi problemi (alcuni condivisi con altri sistemi): l’equità nelle opportunità di accesso allo studio; la totale mancanza di un percorso di studi professionalizzante, sia secondario che terziario; la qualità formativa complessiva dei percorsi propedeutici al proseguimento degli studi. Mi occupo della questione dei percorsi di studio professionalizzanti, lasciando le altre questioni per eventuali post futuri (ho già detto qualcosa a riguardo qui).
Partiamo da qualche dato in grado di fotografare la situazione (fonte: OCSE Education at a Glance 2010): dagli anni ‘80 sino ad oggi l’Italia ha conosciuto un’amplissima espansione della scolarità: il tasso dei diplomati italiani è esploso nel decennio 1988-1998; successivamente, nei primi anni del 2000, quest’espansione si è riversata sull’università. L’Italia, se seguiamo i dati nei periodi citati, ha aumentato diplomati e laureati in brevissimo tempo.
Questo aumento della scolarizzazione è avvenuto senza nessuna sostanziale riforma della scuola. E’ stato, piuttosto, il risultato delle decisioni scolastiche di studenti e professori. I primi, vedendo inflazionati i loro titoli di studio sono stati spinti a proseguire la loro formazione (se tutti hannofatto le medie devo fare le superiori per aver più possibilità, se tutti hanno il diploma dovrò fare l’università, e cosi via); i secondi, spinti dalla credenza che l’universalizzazione della scolarizzazione sia la chiave per combattere l’emarginazione sociale, hanno fortemente abbassato il livello di selezione informale (interrogazioni programmate, aiuti durante gli esami, interrogazioni di gruppo, promozioni regalate, etc..) cercando di dare una chance o tutti.
Questi due meccanismi hanno contrinbuito a far in modo che l’istruzione univesitaria, in Italia, sia diventata quasi un diritto di cittadinanza che non si può negare a nessuno. È evidente che la debolezza di un sistema così aperto e comprensivo è la totale rinuncia a selezionare e indirizzare i percorsi dei ragazzi. Vediamo meglio:
Il nostro sistema, raggiunto il bivio tra secondario inferiore e superiore (tra scuole medie e superiori), prevede una scelta tra tre percorsi: licei, istituti tecnici e istituti professionali. Prendiamo gli istituti tecnici e professionali: sono percorsi lunghi (5 anni), generalisti, molto teorici e quasi totalmente svincolati dal reale mondo delle professioni. Non chiudono le porte allo studio universitario (nonostante forniscano una preparazione non adatta al proseguimento degli studi) e non indirizzano verso nessuna professione. Sono ibridi che non hanno chiare finalità formative.
Per coloro che intendono proseguire gli studi, un percorso generalista, teorico e centrato sulla classica trasmissione del sapere disciplinare ha ancora un importante valore (questo non significa che i licei siano la perfezione ma certo è da evitare la retoriche delle competenze e del problem solving). Infatti, come già scritto altrove, uno dei compiti fondamentali della scuola è quello di preparare al proseguimento degli studi trasmettendo conoscenze alle nuove generazioni. Ma non è l’unico compito. Un altro compito decisivo, che persenta una connessione più immediata con i problemi dell’occupazione giovanile, è quello di fornire competenze professionali e tecniche che siano spendibili entro il mercato del lavoro (esiste un’altro compito decisivo che la scuola dovrebbe assolvere: cioè educare ad una cittadinanza attiva. Ma lascio questo problema, cioè il come sia possibile educare alla cittadinanza attiva, sullo sfondo).
Domanda: perche costringere molti ragazzi che hanno poca motivazione allo studio, magari poche capacità e nessuna voglia di leggere Dante e Petrarca a seguire lunghi percorsi di studio senza alcuna virtù professionalizzante, senza componenti applicative, senza esperienze lavorative, senza attività pratiche?
In breve, una riforma del nostro sistema dovrebbe cercare di creare un canale di studenti che frequentino scuole professionalizzanti e fare in modo che queste scuole facciano ciò che devono: insegnare professioni e mestieri più o meno qualificati. Invece, il fallimento degli istituti tecnici e professionali italiani è esorbitante. Come evidenzia l’ISTAT, circa il 40% dei ragazzi che provengono da istituti professionali e si iscrivono all’università la abbandonano; più del 40% di quelli che non si iscrive all’università è impiegata in posti dove non sono richieste le competenze apprese durante gli studi. Ciò significa che chi frequenta questi istituti ha alte probabilità di fallire. Sia che intenda proseguire negli studi, sia che intenda entrare nel mercato del lavoro.
A differenza dell’Italia, molti paesi europei valorizzano la formazione professionale differenziando i percorsi dei ragazzi. È famoso il modello tedesco. Ma anche in paesi come Svezia e Danimarca i percorsi professionalizzanti esistono e sono valorizzati. Questi paesi offrono corsi professionalizzanti brevi (3 anni) con dinamiche alternanze scuola lavoro, aule pratiche, esperienze in azienda. Chiaramente, in questi sistemi, sono presenti anche percorsi terziari per coloro che intendono specializzare la loro qualifica professionale o per coloro che hanno necessità di aggiornarsi. Gli sbocchi professionali di questi corsi sono chiari e individuabili ex ante. Le richieste degli imprenditori sono realmente prese in cosiderazione per governare gli accessi ai vari corsi.
Differenziare in modo chiaro l’offerta della scuola significa, inoltre, donare pari dignità a tutti i percorsi, cercando di fare in modo che i ragazzi scelgano in base alle loro capacità e aspettative e non in base a pressioni familiari o condizionamenti sociali (per questo sarebbe necessario sostenere economicamente lo studio a partire dalle secondarie). Gli istituti tecnici e professionali non devono essere il luogo di studenti di serie B o dei figli delle classi meno agiate. Devono essere percorsi scelti da coloro che hanno determinate capacità e volontà; da coloro che, magari, hanno poca voglia di studiare ma tanta voglia di imparare un mestiere ed iniziare a guadagnare. Creare percorsi professionalizzanti efficaci aiuterebbe ad uscire dalla logica che i licei sono scuole di serie A e il resto di serie B. Spingerebbe verso la logica che gli istuti professionali sono scuole diverse e hanno compiti diversi.
Si dice spesso che in Italia abbiamo pochi diplomati e pochi laureati. Il problema è, invece, l’opposto: abbiamo un sistema esageratamente aperto, che non seleziona, non indirizza e produce troppi diplomati (e di conseguenza troppi laureati) non in sintonia con le esigenze del mercato del lavoro. Un punto essenziale della sfida riformatrice nel campo dell’istruzione consiste nel cercare di differenziare i percorsi educativi in base alle aspettative, alle capacità ed alle motivazioni dei ragazzi. Per fare questo è necessario ragionare in modo sistemico, trovando un equilibrio tra i compiti della scuola, le esigenze delle famiglie e le richieste del mercato del lavoro. La #buonascuola non si colloca in questa dimensione del problema.
Se la scuola non riesce ad essere un canale che dalla famiglia “mobilita” verso un lavoro (ed una cittadinanza attiva), i meccanismi ponte tra scuola e lavoro seguiranno logiche negative per la collettività. In Italia sappiamo quali meccanismi hanno spesso il sopravvento: la rete di amicizie e conoscenze. Senza una scuola capace di indirizzare i ragazzi, come scriveva un romagnolo del secolo scorso, “è l’amicizia, è la confidenza che tesse le stoffe, fonde i metalli e stampa la latta; […]; è la ‘pastetta’, la sola, la vera, la grande capacità tecnica che domina il mercato”.
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