Scuola

Perché sarebbe cosa buona introdurre l’agricoltura a scuola

17 Gennaio 2025

Sarebbe interessante e utile – forse deprimente, però – raccontare l’identità e la storia della scuola italiana attraverso quei documenti particolari che sono le note in condotta. Ne ricordo una in particolare, perché ne seguì un’accesa discussione con il preside. Avevo un’ora di supplenza in una classe non mia. E sul registro, allora cartaceo, un collega avvisava gli studenti che “se non vogliono studiare, possono andare a lavorare la terra”. Si trattava di una variante della nota surreale, e tuttavia non infrequente: “La classe disturba la lezione”. Ma si era in un paesino agricolo dell’alto Tavoliere e il lavoro della terra dava da mangiare a quasi tutte le famiglie di quegli studenti. Con quella nota il collega poneva un contrasto tra scuola e famiglia, tra scuola e comunità, tra scuola e contesto sociale ed economico di cui provai a spiegare al preside la gravità, senza troppo successo.

Vorrei provare ora a spiegare, senza speranza di un successo migliore, perché ritengo che sarebbe cosa buona e giusta, oltre che urgente, introdurre lo studio e la pratica dell’agricoltura nella scuola dell’obbligo.

La prima ragione ha a che fare con le nostre radici. Molto si potrebbe dire della complessità delle radici, del rischio di chiudersi nelle proprie radici, eccetera; ma non lo farò ora. Mi limito ad osservare che, se le nostre radici sono nel mondo romano, praticare l’agricoltura ci riconduce alle nostre radici anche più e meglio del latino. Perché il contadino che lavora la propria terra è il fondamento della civiltà romana, l’immagine stessa della libertà, dell’autonomia, della semplicità di vita, ossia dei valori più autentici di Roma antica. Non esisteva, a Roma, quel contrasto tra l’intellettuale e il contadino che la scuola italiana coltiva con tanta cura. Nella città, scrive Cicerone, c’è il lusso, e dal lusso nasce l’avidità, e dall’avidità ogni altro crimine, mentre la vita dei contadini paersimoniae, diligentiae, iustitia magistra est: è maestra di parsimonia, diligenza e giustizia (Pro Sexto Roscio Amerino, 75). Sono questi i valori che i Romani legavano al lavoro della terra; e si tratta dei valori costitutivi della stessa identità latina e della loro cultura (parola che viene da colere, coltivare).

Non dovevano avere del tutto torto, se dopo un bel po’ di secoli, e nonostante la nostra bella lingua italiana consenta un’ampia scelta di insulti legati al mondo contadino – bifolco, villano, cafone, zotico eccetera – non sono pochi quanti, anche giovani, avvertono il valore e la bellezza del ritorno alla campagna e al lavoro agricolo.

Studiare e praticare l’agricoltura a scuola ci consentirebbe di riconoscere la dignità e il valore di un lavoro ancora oggi fondamentale e di riconciliarci con quel mondo contadino in cui sono le nostre radici più prossime (radici che il boom economico e l’avvento del consumismo hanno reciso di netto). Ma oltre questo aspetto, etico e politico, c’è un aspetto cognitivo, che naturalmente è centrale quando parliamo di scuola. L’agricoltura consente di studiare in concreto la biologia, la botanica, la chimica, la fisica e l’economia, di comprendere i cicli biologici, il funzionamento degli ecostistemi, l’interazione tra uomo e ambiente e di prendere coscienze della complessità dei processi produttivi, di scoprire da dove proviene quello che mangiamo e quale differenza c’è tra una produzione etica – rispettosa dell’ambiente, delle vite animali e dello stesso consumatore – e una produzione che mira solo a massimizzare i profitti. Uno studio e una pratica che include conoscenze interdisciplinari, competenze pratiche e valori legati alla cittadinanza, dunque. Difficile trovare qualcosa di meglio.  

Manca qualcosa nel mio discorso: bisogna citare almeno un grande personaggio che abbia detto qualcosa di simile. Sarebbe una fallacia, a dire il vero – argumentum ad verecundiam, si chiama –, ma siamo talmente abituati alle fallacie che un discorso che non ne contenga almeno una sembra manchevole. E dunque chiudo ricordando che Nicolas de Condorcet nel Rapporto sull’istruzione pubblica, mentre diceva tutto il male possibile dell’insegnamento scolastico del latino, raccomandava lo studio della storia naturale e dell’agricoltura, affermando che tali scienze “sono, contro i pregiudizi, contro l’angustia spirituale, un rimedio se non più sicuro, almeno più universale della stessa filosofia” (1). Si era nel 1792 e si trattava di pensare una scuola all’altezza degli ideali rivoluzionari. Il primo scopo di un’istruzione nazionale, scriveva nella prima pagina del Rapporto, dev’essere “stabilire tra i cittadini un’uguaglianza di fatto” (2). Per questo scopo riteneva che l’agricoltura servisse più del latino. E forse non aveva torto.

(1) Condorcet,Sull’istruzione pubblica, Libreria Editrice Canova, Treviso 1966, p. 49.

(2) Ivi, p. 31.

Foto di Batatolis Panagiotis da Pixabay

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