Scuola
Pandemia e guerra: “La scuola non aiuta gli studenti”
Intervista a Tommaso Biancuzzi, coordinatore nazionale Rete degli Studenti Medi
Prima la pandemia poi la guerra. Che effetto ha avuto questo rapido uno-due su una generazione di studenti a cui la scuola non sembra volere né poter fornire gli strumenti per decifrare una realtà tanto complessa? Lo abbiamo chiesto a Tommaso Biancuzzi, coordinatore, nazionale della Rete degli Studenti Medi, uno dei principali sindacati studenteschi, mentre anche i lavoratori della scuola sono in agitazione. CGIL CISL UIL Snals e Gilda hanno indetto uno sciopero il 30 maggio, contestano il percorso a ostacoli introdotto dal decreto PNRR 2 per l’assunzione dei docenti e chiedono il rinnovo del contratto scaduto da tre anni. E gli studenti saranno al loro fianco.
In che modo gli studenti vivono da lontano una guerra in Europa?
Partiamo dal presupposto che ragazzi e ragazze che oggi frequentano le nostre scuole non hanno vissuto una situazione analoga in passato. Si trovano a osservare una guerra così da vicino per la prima volta, perché quando ci fu il conflitto in Jugoslavia non erano ancora nati. Ed è un evento di portata storica che arriva subito dopo un altro evento epocale come questi due anni di pandemia e li colpisce senza che abbiano un precedente a cui rifarsi. Perciò vivono questa situazione con smarrimento e la scuola non li aiuta molto.
In classe se ne discute?
C’è discussione, diciamo di sì. I ragazzi cercano di informarsi come possono. Ci sono molte autogestioni, molte assemblee e in tutte le autogestioni dove sono stato invitato venivano dedicati ampio spazio e attenzione non solo all’Ucraina, ma ai fenomeni geopolitici in senso più generale.
In che senso la scuola non aiuta?
Uno dei grossi problemi che derivano dalle riforme Moratti e Gelmini è che la geografia di fatto è sparita: nei primi due anni di scuola superiore c’è questa materia ibrida che si chiama geostoria e che dovrebbe comprendere un’introduzione alla geopolitica, un aspetto teoricamente positivo, ma che in pratica poi si risolve in una netta prevalenza della storia sulla geografia. Poi naturalmente ci sono docenti che approfondiscono la materia, ma la scuola in sé da questo punto di vista non è solida. Le ansie legate alle verifiche, al ritardo sui programmi a causa del covid spingono in direzione opposta.
I social bombardano gli studenti di migliaia di immagini, informazioni, dati e questo potrebbe essere un fatto positivo, ma in realtà rischia di rivelarsi un ostacolo alla comprensione. Cosa ne pensi?
Sì, per un verso è un fatto positivo: non è necessario guardare i tg dei principali canali perché ci sono tante fonti, ma un numero così grande di informazioni, spesso contraddittorie, richiede una capacità di selezionare, discernere e verificare. Sennò il rischio è che tutto sia messo sullo stesso piano. E siccome quando si parla di guerra inevitabilmente c’è propaganda agli studenti servirebbe saper discernere all’interno di questa matassa di notizie. Ora per un certo verso il fatto di essere “nativi digitali” – uso quest’espressione anche se non mi piace granché – li agevola, ma la scuola dovrebbe aiutare a usare queste tecnologie. Come nell’ora di storia si insegna a distinguere le fonti, altrettanto bisognerebbe fare per internet.
Gli studenti hanno partecipato alle manifestazioni organizzate subito dopo l’invasione russa a febbraio e il 5 marzo a San Giovanni con la CGIL, l’ANPI e la rete Pace e Disarmo, ma finora non è stata convocata una manifestazione studentesca specifica contro la guerra. Quanto ha inciso lo smarrimento di cui parlavi all’inizio su questa scelta?
Da un lato la risposta emotiva è stata forte e anche se non c’è stata una manifestazione studentesca contro la guerra c’è stata una forte partecipazione alle piazze dei sindacati e a quella di Fridays For Future, dove abbiamo portato con forza il tema della pace. Ma una manifestazione degli studenti non c’è stata perché, come dicevi tu, c’è una difficoltà oggettiva: ci troviamo di fronte a una situazione complessa, di non facile lettura. D’altra parte invece gli studenti hanno avuto una reazione molto netta sull’aumento della spesa militare. Alla fine, che si parli di razionalizzazioni o di tagli, ci saranno 7 miliardi di euro in meno di risorse per la scuola e su questo gli studenti non hanno avuto esitazioni a esprimersi contro.
In Italia c’è un dibattito sull’invio delle armi, l’aumento della spesa militare e l’approccio del governo italiano – escalation o negoziato per semplificare. Sulla spesa militare hai già risposto. Quali sono le posizioni della Rete sugli altri due punti?
Potrei risponderti così: personalmente sono sempre stato critico verso chi a sinistra cita il Papa come un punto di riferimento, ma in questo momento devo dire che sulla guerra mi riesce difficile biasimarli. Ma se vuoi una risposta più chiara dico che siamo per la Pace e che bisogna trovare a qualunque costo un modo per fermare la guerra, perché la guerra la fanno i potenti i ricchi e la subiscono i deboli.
Una posizione internazionalista?
Esatto.
Cambiamo argomento. Com’è la situazione covid-19 nelle aule in questo momento? A febbraio ho visto che avete criticato il Ministro perché liquidava i problemi come se si trattasse di una situazione che ormai ci siamo lasciati definitivamente alle spalle.
La situazione che c’era fino a qualche mese fa a causa dei focolai oggi è molto cambiata: le misure più restrittive sono state abbandonate e non ci sono più situazioni come quelle che abbiamo vissuto fino a qualche mese fa, con alcune classi in cui c’era un mix di lezioni in presenza e a distanza. Il problema e la critica che facciamo al governo è che il post Covid ci restituisce la scuola esattamente come l’avevamo lasciata. Insomma si è persa un’occasione per migliorare le cose. Ti faccio due esempi. Primo, l’edilizia scolastica: continuare avere 28-29 alunni in una classe non è una cosa molto sensata. Secondo, l’esame di Stato. Pensavamo che si andasse verso un modello di prova più personalizzato e legato al percorso di ogni singolo studente, calandolo nel suo vissuto e invece Bianchi ha restaurato l’esame prepandemia, senza alcun confronto con gli studenti e senza alcuna considerazione delle difficoltà create dalla pandemia. I problemi legati al disagio provocato dalla situazione di questi ultimi due anni sono tutt’altro che superati. La Rete ha realizzato un sondaggio, di cui pubblicheremo i dati nelle prossime settimane. Al nostro questionario hanno risposto circa 23.000 studenti medi e 10.000 universitari e i dati confermano la crescita di questo disagio. Del resto è un fenomeno sotto gli occhi di tutti. Basta entrare in classe per rendersene conto. Io ho fatto molte assemblee. Se chiedi agli studenti come stanno ti rispondono: uno schifo.
Anche la guerra incide, immagino.
Certo, come tutte le guerre c’è anche un effetto psicologico. Proiettalo su ragazzi e ragazze che per due anni sono rimasti in larga misura isolati, sono stati tolti dalle loro classi e chiusi in casa, senza poter frequentare gli amici, stare insieme, fare sport in un età in cui la socialità è tutto e intuirai quali siano stati gli effetti. È una condizione che produce traumi. Tanti studenti e studentesse oggi sono più fragili.
A fine maggio ci sarà uno sciopero della scuola. Parteciperete e quali sono i principali problemi?
Noi abbiamo sempre aderito agli scioperi della CGIL e dei sindacati confederali, abbiamo aderito all’ultimo sciopero generale e lo faremo anche il 30 maggio perché per noi il rapporto tra studenti e lavoratori della scuola e lavoratori in generale è vitale. Il legame tra il movimento studentesco e quello dei lavoratori e delle lavoratrici è stato fondamentale per scardinare alcune delle maggiori storture di questo paese nel secolo scorso. E per noi è ancora un valore. D’altra parte è anche un modo per evitare che passi la narrazione dominante, l’idea dei giovani fannulloni come ce la raccontano Borghese e Briatore. Stare in piazza coi lavoratori per noi è anche un modo per spiegare chi siamo e cosa vogliamo realmente.
Gli incidenti mortali avvenuti di recente durante alcuni stage in azienda in qualche modo hanno evidenziato come gli studenti condividano coi lavoratori alcuni problemi già durante il periodo scolastico. Ad esempio la sicurezza.
Quando ci sono state le morti di Lorenzo e di Giuseppe siamo rimasti sconvolti, ma non c’è molto da stupirsi in un paese in cui si registrano 3-4 morti bianche al giorno. Esporre gli studenti alle contraddizioni di un mondo del lavoro con queste caratteristiche ha conseguenze inevitabili. La lezione che ne traiamo è che i PCTO [Piani per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, in sostanza l’alternanza scuola-lavoro] sono falliti e che bisogna ricostruire il rapporto scuola-lavoro innanzitutto sulla sicurezza. Sennò il rischio è che gli studenti si trovino in una situazione in cui nella migliore delle ipotesi vengono sfruttati, nella peggiore rischiano anche di fare una brutta fine.
Oggi la guerra è arrivata in un momento in cui tradizionalmente l’avvicinarsi alle verifiche e agli esami rende più difficile le mobilitazioni studentesche. Pensi che la precipitazione di tutte le contraddizioni di cui abbiamo parlato possa arrivare col prossimo anno scolastico, quando probabilmente l’impatto sociale della guerra colpirà gli studenti e le loro famiglie in modo più violento?
Certo, le mobilitazioni si costruiscono più facilmente all’inizio dell’anno e in autunno a questo fattore se ne sommeranno anche altri: le possibili tensioni sociali che dicevi tu, ma io aggiungerei anche un aspetto più politico. Andremo verso le elezioni e assistiamo a riassestamento del quadro politico che ha un’intensità e un tasso di novità come non registravamo da anni, con l’avanzata di una destra molto aggressiva che è già convinta di aver vinto. Insomma ci sono tantissime ragioni per cui l’autunno potrebbe essere caldo, come del resto è stato lo scorso anno.
L’intervista è tratta dalla nesletter di PuntoCritico.info del 13 maggio.
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