Scuola
Noi: corpo, emozioni in movimento
“Una nuova generazione però si sta battendo per restituire un quadro più complesso e veridico della situazione in cui ci troviamo, per spostare l’attenzione dalla natura agli esseri umani”
Le donne sono sempre state, nel corso della storia, quelle che hanno avuto un ruolo maschile da svolgere in casa. Intelligenti quanto un uomo, hanno dovuto impiegarla, la loro intelligenza, a svolgere lavori manuali, perché quelli intellettuali erano appannaggio esclusivo degli uomini. Le lotte che hanno abbracciato le ha portate al riconoscimento di una libertà che è stata accettata con difficoltà, strappata a morsi, ogni conquista fatta, ogni passo compiuto ha richiesto una fatica che un uomo non ha mai dovuto compiere per dimostrare il suo valore. Quello riconosciuto ad un uomo è sempre stato un fatto acclarato anche quando l’uomo si è dimostrato mediocre, mai si è parlato della mediocrità maschile, si è sempre messo in discussione la capacità femminile.
Le donne hanno un corpo, un’affermazione lapalissiana, come ce l’hanno gli uomini, affermazione altrettanto palese. Ma il corpo femminile pesa molto più di quello maschile, che non è oggetto di uno sguardo pruriginoso, di battute che lo rivestono di volgarità, non è moneta di scambio, non mezzo con cui barattare cariche o posizioni professionali.
Spesso si considera il corpo solo corpo, lo si espropria della sua interiorità. Si pronunciano parole vuote per ammantare di intenti culturali quello che di meritorio non ha nulla se non quello di riempire la bocca di cibo per zittirla. Il potere delle donne non è mai risieduto nelle loro menti, né tanto meno nel loro cuore, ma tra le loro cosce, è questo quello che l’uomo ha sempre cercato di ricordare loro, hanno un’arma a doppio taglio perché se si è in grado di utilizzare bene un potenziale che risiede nel baricentro del corpo femminile allora potrà essere presa in considerazione, diversamente se osa sfidare il potere maschile tenendo sotto chiave la propria sessualità, e cercando di far prevalere la forza del pensiero, l’uomo si sente sfidato su un campo che è stato atavicamente il proprio. Non è ammissibile che la partita venga giocata su un suolo che per una sorta di ereditario diritto divino, simile a quello che sanciva la discendenza reale, sente appartenergli e che non vuole condividere perché ne detiene la proprietà assoluta.
Il mito del self made man ha reso l’America mitica, a lungo considerata la patria in cui la capacità di ciascuno potevano trovare un giusto sfogo, un reale campo d’azione, terra d’emigrazione che prometteva a chi espatriava la libertà dalla condizione subalterna, spesso di assoluta povertà. In Italia, ancora oggi, dire che una donna si fa da sé attira risatine che sottendono un ammiccamento alla sua sessualità, la fisicità spesso rappresenta un problema, è banalizzata, messa alla berlina, l’occhio vuole la sua parte e allora perché non prendere parte alla baldoria e mischiare l’utile al dilettevole?
Nel mondo del sovraesposto in cui una donna deve cercare di azzerare il ruolo subalterno che una narrazione maschilista ha reso prigioniera del suo corpo, la scuola ha il dovere di rovesciare lo stigma secondo cui un corpo fatto bene può essere messo all’asta, può essere garanzia di successo, il preconcetto che diventare il curatore della propria immagine sarà garanzia di una strada facilitata, di un percorso in cui il sacrificio può essere messo al bando perché tanto hai avuto la fortuna di piacere a chi conta.
Insegnare significa fornire quegli strumenti che ci aiutano a scoprire che per essere felici bisogna sentirsi una persona compiuta e che la realizzazione quasi mai imbocca la strada del godimento, del piacere facile, del divertimento, della corsa alla riuscita. Che riuscire non significa sfruttare il lavoro dell’altro a cui magari gli fai pure le scarpe perché per l’impegno che ha profuso lo congedi con un calcio nel sedere con un benservito, che riuscire significa semplicemente uscire nuovamente da sé per incontrarlo l’altro.
Insegnare vuol dire consentire a ciascuno di diventare qualcuno secondo le proprie capacità, far interiorizzare il concetto che la ricchezza non è un indicatore di capacità, che il lavoro quotidiano e lo spendere ore su un libro per assolvere un compito sono un valore perché permettono di temprarsi dinanzi alle difficoltà della vita; significa, ancora, non arrendersi dinanzi a chi cerca di trasformare le proprie idee e i propri sogni nella brutta copia della sua vita. In una scuola l’altro non è lo strumento per la propria riuscita, ma una risorsa, non qualcuno di cui disfarsi nel momento in cui abbiamo imparato- e di imparare non si finisce mai perché siamo in perenne costruzione- ma un punto di riferimento perché smarrirsi è facile in un mondo in cui il cannibalismo, il mors tua vita mea sembrano essere il credo su cui edificare le nostre vite.
Chi insegna ha la responsabilità di considerare gli alunni che ha dinanzi dei ragazzi che si aspettano qualcosa di diverso da quello che possono trovare su un sito internet, che hanno già qualche esperienza del mondo e sanno che fuori li aspetta una società che l’anima l’ha messa in tasca, nella stessa in cui ha riposto del denaro. Un mondo che offre loro evasione, feste, stordimento, sesso, tutto ciò che li tiene lontano dalla loro coscienza perché per sopravvivere al mondo del sopruso, del lavoro subalterno, dell’ingoiare il torto anche quando si ha ragione, hai bisogno di stonarla la coscienza. Chi insegna avendo dinanzi ragazzi che non hanno strade spianate perché non hanno genitori che fanno da apripista sociale e troveranno per loro il giusto collocamento, deve assolvere l’arduo compito di infondere in loro la capacità di credere nella serietà dello sforzo, di pensare che lo schema padrone e subalterno può essere ribaltato, e che vivere in una società in cui le gerarchie sociali hanno confini stringenti non significa dover ripetere il copione secondo cui chi proviene da contesti culturali svantaggiati dovrà accontentarsi di ridurre i propri sogni in un formato tascabile.
La scuola è un luogo in cui fare una battuta è consentito per alleggerire una lezione impegnativa, ma l’impegno non è una battuta, non è relax, è, al contrario, per un ragazzo un lavoro non retribuito in cui si lavora su di sé, sulla propria capacità di resistere allo sforzo, è un lavoro in cui si edifica aggiungendo ogni giorno un mattoncino in più e quel mattone rappresenta il collante di un saper fare che rappresenta la nostra tessera d’identità. Quella che non ci rende identici agli altri, ma al contrario definisce il nostro essere, la persona che vogliamo diventare e che progettiamo ogni giorno sottraendoci alla mollezza e alla superbia di chi vorrebbe cambiarci i connotati.
In foto: E. Degas,
Étude des mains
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