Scuola

Nello specchio di quale scuola?

3 Febbraio 2021

Patrizio Bianchi, “Nello specchio della scuola”, il Mulino, Voci, pp. 184, Euro 13,00.

 

C’è attualmente negli scaffali delle librerie un breve saggio che tutti gli insegnanti italiani e, in generale, i lavoratori della scuola potrebbero leggere con qualche utilità: si tratta di “Nello specchio della scuola” di Patrizio Bianchi (il Mulino, pp. 184, euro 13.00). Perché si tratta di una lettura così utile? Perché quella di Patrizio Bianchi, economista dell’università di Ferrara, esperto del rapporto tra educazione e sviluppo economico (titolare della Cattedra Unesco in “Educazione, crescita e uguaglianza”), nonché per un decennio assessore alle politiche scolastiche della Regione Emilia Romagna, è una voce autorevole e ascoltata in questo campo. Non a caso Bianchi ha coordinato la commissione di esperti voluta dalla ministra Azzolina sul futuro della scuola italiana dopo la pandemia. Ora, è chiaro che questo saggio non è un semplice estratto della relazione conclusiva del lavoro di quel comitato (presentata alla ministra il 13 luglio scorso), ma è altrettanto chiaro (e l’autore lo esplicita) che sicuramente è stato scritto sulla scia di quel lavoro. A conferma di ciò basta consultare il web e si troveranno molti materiali relativi alla commissione in questione. È evidente pertanto che gli insegnanti e i lavoratori della scuola possono trovarne proficua la lettura, se vogliono sviluppare un po’ di consapevolezza sul futuro possibile di questa istituzione. Il percorso argomentativo che si dispiega in questo saggio è semplice: il Covid 19, come in altri aspetti della società italiana, sta portando alla luce i grandi limiti strutturali della nostra scuola: non si tratta soltanto di superare la didattica a distanza e i danni (o i benefici) che ha provocato su diversi livelli, si tratta di «andare avanti innovando» e di acquisire definitiva ed efficace consapevolezza che il futuro del nostro paese (anzi la possibilità stessa di avere un futuro di sviluppo) passa necessariamente per una ripresa della riflessione culturale e politica, dell’investimento economico, quindi dell’attività riformistica nei settori della scuola, della formazione, dell’università e della ricerca scientifica. Il saggio propone un’analisi delle trasformazioni economiche che l’avvento delle nuove tecnologie soprattutto (3G e 4G) hanno imposto recentissimamente alle nostre società e da questa fa derivare una lunga serie temi di approfondimento e di proposte concrete che, probabilmente, saranno oggetto di nuova attività legislativa e riformistica e motore di ulteriori cambiamenti del mondo della scuola: dai patti educativi di comunità al rilancio del sapere scientifico, da un ripensamento sostanziale dei saperi umanistici alla revisione del concetto di classe come comunità aperta, dall’edilizia scolastica alla proiezione attiva in spazi extra-scolastici. Un saggio interessante e, come si è detto, di utile lettura, ma che suscita anche non pochi interrogativi, che desta perplessità e preoccupazioni e sfida il lettore a riflettere e a interloquire. Proviamo a farlo ordinatamente, pur nei limiti e con la parzialità, di un articolo giornalistico.

Anzitutto è chiaro che l’attività riformatrice è necessariamente politica: sia che venga condotta da una prospettiva autoritaria, sia che venga condotta nel contesto di un regime democratico: un’attività politica che nasce da presupposti politici e dalla quale ci si attendono risultati politici. In democrazia occorrerebbe sempre una chiara approvazione elettorale dei progetti di riforma, con una discussione ampia e reale e poi con il voto. È inimmaginabile che Bianchi non abbia piena consapevolezza di questo, ma ci si chiede – ed è una domanda legittima – se è stata mai fatta una analisi reale dei danni che il disordinato (a voler usare un benevolo eufemismo) processo riformatore che ha attraversato il mondo della scuola negli ultimi trent’anni ha causato alla scuola stessa e alla vita di milioni di persone. Ferma restando la bontà dell’idea dell’autonomia scolastica e del legame delle scuole con i territori di afferenza, siamo sicuri che tutto quel che è venuto dopo sia stato sempre congruo e dettato solo dalla volontà di far funzionare meglio la scuola? Ormai è quasi senso comune che le riforme della scuola sono le più facili, “pronta consegna” per chi volesse aggiungere qualche capoverso al suo curriculum di “coraggioso riformatore”, magari collocando in estate gli eventuali passaggi parlamentari. Riforme che spesso si conducono in modo parziale o partendo, ad esempio, dagli esami finali e immaginando di riformare dopo la struttura per adattarla all’esito. Follia ideologica o furbizia italiota: magari poi cade il governo e addio, la frittata è fatta… Perché un giudizio così duro? Perché chiunque pensi di metter mano alla scuola, o progetta di farlo al di là di qualsiasi programma elettorale e magari al riparo di qualche commissione ministeriale, dovrebbe almeno sentire l’obbligo morale (se non sente quello politico) di predisporre un’analisi scientifica (ma basterebbe anche una seria riflessione) relativa ai danni che hanno provocato le riforme della scuola che – sconsideratamente, se non in malafede – si sono susseguite nel nostro paese. Sconsideratamente: perché se fai una riforma devi pur lasciare che questa sia sperimentata per almeno dieci anni, e poi, eventualmente analizzata e corretta con ponderazione. Invece in Italia non si è nemmeno aspettato che si mettessero in campo i decreti attuativi di una legge di riforma per provare subito una altra riforma “storica”, “epocale”, “definitiva” “realmente democratica”. Ovviamente sulla pelle dei bambini/ragazzi, delle bambine/ragazze e dei lavoratori della scuola. Sulla pelle degli insegnanti in primis: perché, in fondo, tutto quello che accade nella scuola non può accadere che attraversando necessariamente il lavoro (e quindi le vite) degli insegnanti. Qualcuno si è mai seriamente interrogato sul perché gli insegnanti italiani dopo aver accettato il riformismo di Luigi Berlinguer (pur venato anch’esso di qualche sgradevole nota di astrattezza), dopo aver accolto con diffidenza e ostilità le riforme e i tagli finanziari brutali di Moratti e Gelmini, si sono opposti ferocemente alla cosiddetta “Buona scuola” renziana? Soltanto per pigrizia intellettuale? Per conservatorismo corporativo, come si è detto ridicolmente? Era poi così pessima quella riforma? Forse no, ma era evidentemente astratta, condita da velleitarismi e furberie (il tentativo di affidare ai dirigenti l’assunzione degli insegnanti, la facilitazione demagogica a licenziare gli insegnanti cattivi, la fase di ascolto degli umori degli insegnanti affidata a un sondaggio frettoloso e di risibile e offensiva superficialità), dettata da motivazioni estranee alla realtà della scuola e, soprattutto, non rispondeva ai problemi più urgenti della realtà lavorativa connessa. L’ideologia meritocratica si deforma e fa scherzi strani se propugnata superficialmente e possibilmente mettendo sul piatto pochi soldi e troppa, davvero troppa, sterile propaganda.

In secondo luogo quando parliamo di scuola di che cosa parliamo? Di educazione? Di istruzione? Di formazione? Sono concetti diversi che afferiscono a realtà concettuali e organizzative contigue ma non sempre e del tutto sovrapponibili e non bisogna giocare con le parole. La scuola italiana, comprensibilmente, per reagire all’autoritarismo della precedente impostazione gentiliana o alla gerarchizzazione che corrispondeva al modello fordista dell’organizzazione del lavoro, ha reagito puntando sull’educazione. Ufficialmente provando a integrare i tre campi dell’educazione, dell’istruzione e della formazione, sostanzialmente puntando invece sul paradigma dell’educazione. Educazione con tutti i suoi derivati concettuali. Proviamo a ricordarne i più importanti: la considerazione dell’alunno come persona (portatrice di bisogni, di sensibilità individuali, di fragilità e di creatività) prima che come parte di un gruppo/classe, l’inclusività e la valorizzazione della diversità, la distruzione di ogni forma di nozionismo rispetto alle pratiche di trasmissione della cultura con la lotta dura ai “programmi ministeriali” e l’ossessione per l’innovazione didattica. Però, se si cambia paradigma, se si sceglie – come si è scelta – questa strada, bisogna anzitutto capire che cosa si perde di buono del paradigma precedente, se è giusto e accettabile perderlo e se tutti gli attori di questo cambiamento sono stati informati adeguatamente e lo hanno condiviso democraticamente, almeno in maggioranza. È evidente invece che questo radicale cambio di paradigma della scuola (che è ancora in fieri) è avvenuto senza chiarezza politica, senza consapevolezza degli effetti sulla società e su altri ambiti della vita associata (i genitori, l’università, il mondo del lavoro e delle professioni, gli ambiti territoriali), senza la condivisione di tutti gli attori e con un evidente, eccessivo, cedimento sul fronte del rigore che nega, di fatto, ogni responsabilizzazione dei ragazzi e delle famiglie. E non sempre gli effetti di questo cambio di paradigma sono stati positivi. Ci sarà o meno una qualche correlazione tra l’aver indebolito lo studio della storia e delle discipline umanistiche di base storico-linguistica (la geografia è stata quasi eliminata o talvolta sostituita dalla barzelletta ridicola e in malafede della geostoria) e il fatto che il nostro paese, a un certo punto della sua recente vicenda politica, ha dato un potere enorme al partito degli adoratori del dio Po, che a sua volta ha spinto (tutta) la politica a orientare in senso “federalista” l’organizzazione dello stato, mentre il mondo, per via dell’informatica, diventava molto più piccolo e nel nostro piccolissimo paese aumentavano, paradossalmente, distanze e diseguaglianze? La risposta appare evidente e sembra inutile ricordare che oggi, dopo gli adoratori del dio Po, è l’ora dei negazionisti e del ritorno in scena, niente meno, dei nazionalisti. Ci sarà una qualche correlazione tra il fatto che, cacciato il diavolo del nozionismo, se ne sono andate spesso anche le nozioni basilari e oggi sempre più italiani non hanno capacità di orientarsi minimamente nel mondo e non mancano di comunicare, di elezione in elezione, che sono alla ricerca di leader forti che li guidino e gli tolgano di dosso la pesante incombenza del capire e del decidere? E ancora – riflettiamo – può essere che tra Giovanni Gentile e la riforma dell’autonomia la cultura scolastica italiana non abbia prodotto quasi nulla (a parte don Milani, i decreti delegati e le esperienze scolastiche emiliane?). Non vale la pensa forse di pensare che il “magistero scolastico” (scolastico, non solo culturale, scientifico e politico) di uomini come Sapegno, Petronio, Muscetta, Argan, Marchesi, Geymonat, Abbagnano, Spini e molti altri maestri, abbia pur dato qualcosa di positivo alla cultura democratica di tante generazioni di italiani e non vada sciattamente “rottamato”? Siamo sicuri che deprimere fortemente l’aspetto dell’istruzione nella scuola non abbia in qualche modo confermato in molti alunni e genitori l’idea che la scuola deve fornire loro un servizio soddisfacente come un qualsiasi supermercato? Con il necessario corollario che, se i risultati non corrispondono alle aspettative la “colpa” è certo dei prof. perché – come si sa – “il cliente ha sempre ragione”? E quando sarà possibile fare un discorso politico serio sulla validità e necessità reali dell’insegnamento della religione a scuola, almeno così come è concepito oggi? Quando sarà politicamente ed economicamente possibile ripensare alla presenza dello sport nell’offerta formative delle scuole? E infine un altro esempio di triste attualità: chi senza preconcetti si è chiesto, attonito, perché la ministra Azzolina non abbia esitato a farsi ridere dietro da tutta Italia con la storia dell’acquisto urgente dei banchi a rotelle, non conosce l’attuale mood della scuola italiana: l’imperativo categorico – ormai persino stucchevole – è l’innovazione didattica e tutto deve essere piegato a questo imperativo, tutto, anche a costo del grottesco in piena pandemia. Del settore economicamente strategico della “formazione” (professionale, professionalizzante, post scolastica, precedente al servizio o in servizio, puntuale o continua e via aggettivando) va detto solo che, come giustamente scrive Bianchi, riguardando non solo gli anni della scuola ma anche momenti successivi dell’età adulta, avrebbe bisogno di ben altre risorse economiche rispetto a quelle che il nostro paese ha inteso impiegare in questo settore.

Il terzo step di riflessione e interlocuzione rispetto alle sollecitazioni del libro di Bianchi è legato alla condizione degli insegnanti. Vien da chiedersi com’è possibile che in un saggio di più o meno centottanta pagine dedicate alla scuola del futuro e a concretissime ipotesi di riforma, ce ne siano soltanto due o massimo tre (compresi gli accenni sparsi) dedicate alla figura e al ruolo degli insegnanti? È davvero deprimente. Ma del resto anche la commissione coordinata da Bianchi rispecchia già nella sua composizione questo atteggiamento: su diciotto componenti (sociologi, pedagogisti, psicologi, dirigenti, funzionari, esperti di politiche del lavoro e di nuove tecnologie), si conta la presenza di una sola insegnante di scuola superiore e c’è davvero poco altro da aggiungere (cfr. https://www.miur.gov.it/web/guest/-/coronavirus-azzolina-istituito-comitato-di-esperti-metteremo-rapidamente-a-punto-il-nostro-piano-per-la-scuola-). Si badi bene, non ci sarebbe aspettata più attenzione verso la “solita prevedibile lagna” degli stipendi troppo bassi per dei professionisti che, bene o male, si occupano quotidianamente dell’istruzione e dell’educazione dei ragazzi e delle ragazze: troppa grazia. Ma una riflessione seria sul perché ancora oggi si diventa insegnanti (quali motivazioni? quali narrazioni? quali spinte culturali?) sarebbe stata doverosa. Una riflessione sul “come” si diventa insegnanti oggi (non si ricorda più l’era in cui i concorsi a cattedra si svolgevano per più di due volte di seguito con la stessa modalità); sui percorsi universitari che portano alla professione con un bagaglio culturale pesante che però, una volta arrivati nelle scuole, viene quotidianamente e sostanzialmente svilito, giudicato inutile e sopraffatto da un cumulo di ben più “urgenti” conoscenze (nozioni) psicologiche, pedagogiche, informatiche, burocratiche, di didatticismi spesso tanto astratti quanto stucchevoli nella loro compulsiva ossessività. È sbagliato che un insegnante sia e si senta un educatore e che in quanto tale sviluppi una professionalità adeguata e ben aggiornata anche in questi campi? Assolutamente no, anzi è giusto e persino doveroso. Ci si forma, si acquisiscono conoscenze e competenze pedagogiche e di gestione della relazione educativa, di ascolto e di dialogo, si prova ad applicarle in classe con rispetto e con tranquillità, ma poi basta. Non si può chiedere a un insegnante di fare quasi tutto tranne insegnare, di concentrarsi esclusivamente sul metodo e dimenticare il merito della sua materia d’insegnamento, non gli si può chiedere di perdere il gusto per le cose che ha amato e scelto di studiare, non gli può chiedere di fare ogni giorno altro, fino al punto di dover sostanzialmente cambiare mestiere e da professionista diventare un dilettante.  E questo vale per l’ossessione pedagogica e didattica che evidentemente domina il ministero, ma poi c’è l’informatica, c’è la conoscenza imprescindibile di Google Suite (e ci mancherebbe in tempi di Dad) e di ogni nuova app, c’è la gestione del registro elettronico, c’è l’alternanza scuola lavoro, c’è la fatica dell’orientamento, c’è l’impegno nel territorio, ci sono le conferenze a cui è obbligatorio far partecipare i ragazzi indipendentemente dalle tematiche trattate, poi c’è la selva degli acronimi, c’è l’educazione civica trasversale, quella ambientale e quella affettiva.  Ci sono i voti e l’eterno ritorno dei giudizi. Di tutto, di più. Tra l’altro, con un aumento dell’impegno orario e un appesantimento dell’aspetto burocratico, che magari si è smaterializzato ma non è affatto diminuito. È questo che vogliamo? È davvero questa dimensione professionale che vogliamo proporre ai giovani, anche ai più brillanti, che (sempre più di rado per la verità) continuano a sognare l’insegnamento, perché magari un giorno si sono innamorati della vertigine della letteratura, della filosofia, delle scienze, della matematica.

Chiudiamo la riflessione che il libro di Bianchi ha sollecitato rivolgendoci alla figura professionale dei dirigenti scolastici (così si chiamano, non più presidi). Se la nostra scuola è davvero “la scuola dell’autonomia”, non può esservi dubbio che si tratta di figure di sistema che hanno un’importanza cruciale per il suo funzionamento. Se questo è vero, sarebbe stato più che normale concentrare su queste figure l’attività riformistica più seria e responsabile. Oggi i dirigenti scolastici hanno l’obbligo di essere burocrati infaticabili, scafati amministratori, esperti di diritto del lavoro e di sicurezza sul lavoro, esperti di finanziamenti europei, psicologi, pedagogisti, esperti di didattica, comunicatori, attenti difensori della privacy, raffinati cultori di rapporti politici col territorio, leaders e motivatori degli insegnanti e dei componenti degli staff. Una complessità quasi vessatoria per le persone che svolgono questo lavoro, una complessità che può trovare una composizione tranquilla ed efficace solo dopo diversi anni di esperienza sul campo. Ma anche in questo caso occorrerebbe chiedersi come vengono assunti i dirigenti; quali motivazioni li inducono a scegliere questo lavoro; come, quando, da chi vengono formati; se non sarebbero necessari dei periodi di tirocinio. Domande serie, che pretendono risposte politiche e gestionali serie. Domande a cui non si sarebbe dovuto rispondere evocando l’avvento del preside manager che parla inglese fluenty, che trova soldi anche dove non ci sono, che può premiare i prof. “bravi” (anche perché costa meno che aumentare gli stipendi) e può licenziare quelli che un bel giorno perdono l’equilibrio o, più semplicemente, continuano a pretendere dai ragazzi e dalle ragazze ragionamenti e date, intuizione e consecutio temporum, creatività e grammatiche, passione e rigore.

Detto tutto ciò, sarebbe forse auspicabile un immobilismo che nulla cambia ed evita di confrontarsi col divenire della realtà? Sarebbe meglio restare indifferenti ai cambiamenti culturali profondissimi che attraversano la vita dei giovani e spesso ne rendono drammatica e indecifrabile la realtà? No. Assolutamente no. Ciò che si chiede, è di aver cura concretamente della scuola che c’è. Si chiede di rispettare un’istituzione che deve essere educativa già nel suo stesso funzionamento complessivo, un’istituzione che appartiene a tutti i cittadini e in primis ai bambini e alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze e a chi ci lavora quotidianamente (e vorrebbe ancora esserne orgoglioso). Rispettarla, risolvendo – con coraggio e con soldi veri – i nodi culturali, politici e di funzionamento che la attanagliano: dalle modalità stabili e ordinate di assunzione degli insegnanti e dei dirigenti alla loro fisionomia culturale e professionale, dalla formazione agli stipendi e alle carriere, dall’edilizia scolastica all’assunzione di nuove figure di sistema che oggi appaiono necessarie (psicologi, educatori, medici, esperti di diritto e sicurezza), dal tempo pieno alla semplificazione burocratica e alla definizione di nuovi e vecchi curricoli. Occorre ribadirlo: nodi culturali, politici e di funzionamento e dopo, molto dopo, pedagogici, didattici e psicologici. Prendersi cura della scuola che c’è insomma e non tentare ulteriori riforme improvvisate o velleitarie che, aumentando la confusione, lo smarrimento e la demotivazione di chi ci lavora, stanno sgretolando l’edificio antico e – perché no? – ancora bellissimo di questa nostra istituzione.

 

Paolo Randazzo

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