Scuola
L’insuccesso scolastico e l’effetto alone
“Persino i gatti seppelliscono le loro lordure; io invece le mie me le porto appresso”
“S’appeler” non è un verbo facile, è riflessivo e inoltre ha la particolarità di raddoppiare la “L” nelle prime tre persone singolari e la terza plurale. Nonostante le sue irregolarità, lo faccio diventare simpatico agli alunni, facendo riflessioni che superano la marca grammaticale. Dico che l’appello mattutino, un elenco di nomi, non è semplicemente un elenco, è un modo per riflettere se stesso nell’altro. Siamo l’altro che sentendosi chiamare, e io spesso chiamo gli alunni per nome, si riconosce, sente che è una persona visibile, esistente per il professore, una componente essenziale del gruppo classe.
Il raddoppiamento della “L” non è altro che la nuova identità, raddoppiata di significato, che il gruppo assume grazie alla presenza di ciascuna individualità. Il gruppo è più della somma delle singole parti.
L’appello è la pelle del gruppo classe, il suo involucro esterno, un significante che assume significato solo se ciascuno apporta il suo contributo.
Il riconoscere l’altro deve necessariamente andare al di là dell’etichetta del nome e cognome. Esistere, e quindi nominare, significa saper scandagliare, trovare il varco che consente l’accesso all’interiorità, significa condividere le gioie dei successi e patire le sofferenze dell’insuccesso scolastico. Quest’ultimo è riconoscibile, ha sintomi ben evidenti, parla il corpo che somatizza con ansia, preoccupazione, irrequietezza, distrazione e, nei casi peggiori, violenza. La fuga nei mondi altri, di qualsiasi natura basta che ci allontani da quello in cui fisicamente si è presenti, è un chiaro indicatore del fallimento della scuola. L’alunno si sente incapace, magari ha provato anche a studiare la disciplina in cui è carente, ma sente di non farcela e avverte che l’insegnante lo ha abbandonato, lì nel suo banco, isolato, come un oggetto ornamentale di cui farebbe tranquillamene a meno.
È facile che si generi l’effetto alone, la tendenza inconscia che consiste in una distorsione cognitiva per cui si tende a generalizzare un tratto, una qualità. Se l’alunno, ad esempio, sarà carente nella nostra disciplina, lo penseremo incapace su tutti i fronti del sapere. Lo etichettiamo inconsciamente, lo diamo per spacciato, perduto, rovinato. Non pensiamo che l’alunno abbia abilità o interessi diversi da quelli che noi sollecitiamo. Lui, d’altro canto, se ne fregherà dell’insegnante, della materia; del resto se l’insegnante soffre di miopia perché dovrebbe essere lui a fare i salti mortali per essere visto. L’insegnante è il cerbero della situazione, lo odia, la sua materia non serve.
La disciplina allora deve assumere la forma di un sapere pretestuoso, liberarla dalla zavorra che sbarra la strada alla comprensione, deve essere sviscerata, aprire a mondi più congeniali allo studente, un legame che lo porta alla scoperta di possibilità non considerate, una strada collaterale che immette in quella in cui riesce a camminare agevolmente senza grandi intoppi. L’intoppo, semmai, sarà la sfida, la modalità alternativa alla risoluzione del problema.
Nascondere l’insuccesso dietro incapacità e paure di non farcela è come porle in una vetrina, è un ago che pungola, la disciplina deve essere considerato un filtro da “phileo”, amore. Solo guardando lo studente con amore, una persona con un suo mondo e col suo vissuto, si potrà realizzare un lavoro comune che attribuirà senso alla presenza in classe.
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