Scuola

L’incubo del registro elettronico

6 Ottobre 2024

LA VALUTAZIONE SCOLASTICA: DEGLI ALUNNI O DEI PROFESSORI?
Riflessioni di un genitore su come dovrebbe cambiare la valutazione nella scuola italiana.

CINQUE

Ho scritto un libro sulla scuola italiana anche per raccontare quanto era brava la mia maestra delle elementari, perché non ha mai, dico mai, usato i voti durante l’anno. Ne ho addirittura la prova, cinquant’anni dopo: un paio di quaderni di italiano che mia madre aveva conservato e che ho scoperto recentemente. Li ho sfogliati con molta attenzione: anche quando facevo degli errori, la mia maestra li correggeva, ma alla fine del compito scriveva sempre e solo: “Bene”.

Anche se ero dislessica e non lo sapevo (ma avevo capito di non saper fare i conti, in particolare le divisioni, e non sapevo leggere e scrivere i numeri quando c’era di mezzo lo zero), le mie scuole elementari sono andate lisce come l’olio proprio perché la maestra non dava mai un voto ai nostri compiti, ai temi, alle interrogazioni, quando ci chiamava alla lavagna, ma usava sempre e solo una parola, “Bene”, nonostante dovesse poi mettere i voti sulle pagelle.

Era come se i “Bene” fossero riservati a noi scolarette e i voti fossero per i nostri genitori che andavano a ritirare le pagelle due volte all’anno. Noi – quaranta bambine – venivano tenute al riparo dai voti, per non umiliarci, non farci sentire giudicate, perché non pensassimo ai voti, ma solo a quanto era bello andare a scuola. Uscivo di casa alla mattina tutta contenta di incontrare le mie compagne e la mia maestra, senza nessuna paura di quello che mi sarebbe potuto succedere durante le ore di lezione.

Ho ritrovato anche un paio delle mie pagelle delle elementari: non prendevo dei gran voti, mai un otto, solo distese di sei e sette, ma credo che mia madre non mi facesse vedere le pagelle o quantomeno non ricordo nessuna discussione in famiglia sul fatto che io prendessi dei voti non particolarmente brillanti. Certo sapevo che c’erano delle compagne di classe molto più brave di me, non mi sono mai percepita come una brava scolara, e solo quando ho fatto i test sulla dislessia (a cinquant’anni suonati) ho capito perché ero la bambina seduta sempre all’ultimo banco, che cercava di non farsi notare troppo dagli insegnanti, incapace di rispondere in fretta e in modo brillante alle domande che fioccano con chi si mette in mostra (e sceglie in genere il primo banco).

Quando invece mio figlio ha cominciato le primarie, nonostante non fossero ancora in uso i registri elettronici, le sue maestre mettevano un voto a qualsiasi compito fatto a scuola e a casa. Voti che noi genitori dovevamo controfirmare, a riprova del fatto che i nostri figli ci avevano mostrato i loro quaderni: c’era richiesto di dimostrare (con la nostra firma) di sapere qual era il loro “profitto” scolastico.

Molte delle prove alle quali i bambini venivano sottoposti avevano addirittura una pretesa di oggettività per quanto riguardava i voti che poi sarebbero stati assegnati, come per esempio i compiti sui verbi. La maestra dettava dieci verbi e i ragazzi dovevano indicare il modo e il tempo del verbo. Compito difficilissimo per i dislessici, notoriamente dotati di poca memoria. Ma siccome i verbi erano dieci, se ne azzeccavi solo tre, nel compito prendevi un oggettivissimo tre. Incontestabile.

Io controfirmavo tutti i voti ed ero costretta a passare le serate, dopo che ero tornata dal lavoro, a trovare un modo per stampare nella testa di mio figlio i famosi modi e tempi verbali, da non dimenticare fino a quando non avrebbe svolto la verifica. Sapevo che mio figlio si sarebbe dimenticato il nome dei tempi verbali un’ora dopo aver fatto il compito, ma allo stesso tempo non potevo mandarlo allo sbaraglio in quelle verifiche “oggettive”, in cui c’era sempre il rischio che tornasse a casa con un due che avrei dovuto controfirmare.

Ricordo di quei tempi l’esortazione costante delle maestre, durante le riunioni di classe, a verificare il diario dei nostri figli e i loro quaderni anche per controllare che avessero fatto i compiti a casa e per prendere visione di eventuali note sul comportamento. Era un lavoro incessante: perquisivo la sua cartella per controllare che non ci fosse qualcosa che non avevo firmato. E poi si chiede ai genitori di restare fuori dalla scuola? Hahaha…

Le primarie di mio figlio sono state un vero e proprio incubo, anche perché i messaggi che ricevevamo dalle maestre erano paradossali: “State fuori dalla scuola, perché solamente noi sappiamo come si insegna e si valuta un alunno”, ma allo stesso tempo: “Se scopriamo che non avete controllato il diario e i quaderni dei vostri figli, saranno guai”.

Anche sulla questione dei compiti a casa le maestre ci mandavano un messaggio paradossale: “I vostri figli devono farli da soli”, ma quando avevo loro chiesto se dovevo aiutare mio figlio nel caso in cui la quantità di compiti a casa eccedesse la sua capacità di svolgerli (perché erano tanti o perché erano difficili), la maestra mi aveva risposto con un Ibis redibis: “Deve capire lei quando suo figlio ha bisogno di un aiuto o quando può farcela da solo”.

Bene, se queste erano le premesse, si può immaginare che cosa successe quando vennero introdotti i registri elettronici, alla scuola secondaria inferiore. I messaggi dei suoi nuovi insegnanti continuavano a essere paradossali: “Genitori, state fuori dalla scuola” e poi: “Genitori, controllate ogni giorno il registro elettronico per verificare che non vi siano note sul comportamento, ma anche per sapere i voti che hanno preso i vostri figli, quali sono i compiti che gli abbiamo assegnato, e se vi sono delle “strane” assenze in più rispetto a quelle che avete giustificato” (che andavano invece giustificate con un libretto cartaceo). Anche se mio figlio non è mai stato accusato di avere “marinato” la scuola, ormai dovevo letteralmente perquisire tutti i giorni il registro elettronico, per scoprire se non vi fossero novità di cui era assolutamente necessario essere informati.

Confesso che dall’era del registro elettronico in poi la mia allergia alla panoplia di voti che gli venivano comminati è diventata conclamata. Avrei fatto volentieri cose più interessanti di controllare continuamente il registro di classe, visto che i genitori devono restare fuori dalla scuola, ma siccome alle scuole medie era iniziato il famoso “valzer dei docenti”, anzi nel caso di mio figlio il “valzer dei supplenti” – in seconda media si avvicendarono ben nove supplenti di matematica – capitava spesso che appena arrivava un nuovo docente, la prima cosa che faceva era dire alla classe: “Vediamo un po’ a che punto siete col programma!”, e giù con una verifica scritta. Naturalmente, siccome mio figlio era discalculico, quando gli arrivava un quattro in matematica affibbiato da un nuovo professore, andavo a controllare i suoi compiti per verificare (io, la madre…) se aveva fatto errori di procedura o di calcolo.

Ormai, da “genitore esperto” di un dislessico, e ancora capace di fare un’equazione di secondo grado, riuscivo a capire se mio figlio aveva messo un meno al posto di un più (errore classico dei dislessici) oppure aveva sbagliato la procedura per risolvere l’equazione. Sono addirittura finita in presidenza dopo una delle mie contestazioni a un docente (che gli aveva messo quattro in un compito dove c’erano solo errori di calcolo), ma nonostante la richiesta (del docente) di punire duramente una madre che osava contestare i suoi voti, il preside aveva preso atto del mio punto di vista e il quattro venne cancellato.

Immagino che a questo punto qualcuno possa dire: “Ma così facendo, tu, genitore, hai mancato di onorare il patto educativo con la scuola che prevede che siano i docenti a valutare gli studenti, non certo i genitori. Pessima lezione per un figlio: se non stai dalla parte dei docenti, questo ragazzo diventerà un ribelle, un viziato, qualcuno che non sa stare al mondo, perché non accetta le linee gerarchiche stabilite dalle istituzioni, in primis in quelle scolastiche, e poi nelle aziende in cui andrà a lavorare”.

Ecco, proprio perché la valutazione è un’opinione e quindi è opinabile, credo che insegnare la cieca ubbidienza e il rispetto per la valutazione che ti danno gli altri, sia a scuola che nei contesti lavorativi, sociali e politici, non sia per nulla educativo. Insegnate a un ragazzo a ubbidire e ubbidirà sempre, anche se gli dicono che deve prendere un fucile e sparare a qualcuno. Il nome esatto per indicare questa attitudine è “pedagogia nera”: il termine viene utilizzato per indicare lo stile educativo autoritario sulla base del quale nella Germania nazista i bambini vennero prima trasformati in boy scout dotati di una piccola carabina che dovevano imparare a usare, e poi morirono nella Seconda Guerra Mondiale, a cui seguì la distruzione della Germania e quindi la divisione in due del paese.

Diffido sempre di tutti coloro che incitano a ubbidire prima e argomentare dopo – forse, casomai, se proprio ce n’è bisogno… – il loro dissenso. Nelle società libere e democratiche bisogna coltivare il dissenso, ovvero permetterlo, relativamente a ogni singolo aspetto delle nostre vite. Sono più sane le organizzazioni che si basano sul coinvolgimento attivo di tutti i soggetti, concetto che suona un po’ fumoso, ma significa permettere a tutti di esprimere la loro opinione. Anche a un genitore, anche a uno studente, anche sulla valutazione che gli viene attribuita (poi spiegherò meglio come vorrei venisse fatta).

Mi sono permessa di dissentire dalle valutazioni degli insegnanti di mio figlio anche quando è arrivato alle scuole secondarie di secondo grado, nonostante i dolori e i tremori collegati alle nuove versioni del registro elettronico. Dopo le edizioni basiche delle scuole medie, in cui comparivano solo i voti, le assenze e le note sul comportamento, i nuovi registri elettronici permettevano di attribuire un colore diverso ai voti: rosso se il voto era insufficiente, verde se era sufficiente, azzurro se era temporaneo, arancione se non era né carne né pesce, ovvero il famoso cinque e mezzo con il quale si finisce regolarmente per essere bocciati o rimandati, perché il cinque e mezzo in pagella diventa (quasi) sempre cinque.

Non solo, i nuovi registri elettronici permettevano di calcolare istantaneamente la media dei voti in una materia appena mio figlio ne riceveva uno nuovo. Le scariche di adrenalina erano quindi due (parlo di scariche adrenaliniche sia per il figlio che per il genitore): quella collegata al nuovo voto, che poteva essere rosso e arancione (orrore!) e la nuova media che ne derivava, ancora una volta colorata di rosso o arancione. Un incubo a colori, insomma, comminato da un corpo insegnante dedito a spargere sul registro elettronico il “congruo numero di voti” che si ritiene necessario per poi effettuare la cosiddetta media sommativa alla fine del primo quadrimestre o dell’anno scolastico.

Nell’istituto tecnico che mio figlio ha frequentato c’erano addirittura tredici materie nel biennio e il congruo numero di voti significava almeno una quarantina di verifiche per quadrimestre e quindi un’ottantina di conseguenti scariche di adrenalina, visto che, come si sarà capito, non sono la madre di un primo della classe.

Insomma, al genitore a cui viene chiesto di non mettere il naso nella scuola, e quindi nella valutazione, si chiede di assistere inerme a questi continui affondi nella vita psichica di suo figlio, perché non si può negare che un ragazzo soffra quando vede apparire un rossissimo due sul registro di classe dopo una verifica di matematica.

Penso che sia istintivo il desiderio di difendere un figlio preadolescente o adolescente da quella raffica di voti ai quali viene sottoposto un ragazzo che frequenta le scuole italiane. Ci sono ancora le interrogazioni a sorpresa, che contestai all’insegnante di inglese di mio figlio, perché, in quanto dislessico, la legge gli consentiva di avere il tempo di prepararsi per le interrogazioni (programmate). Ma l’insegnante mi aveva risposto: “Signora, io interrogo a caso i ragazzi tutti i giovedì: lo sanno!”.

L’insegnante in questione era infatti appassionata dei voti blu ovvero di voti provvisori che sommati tra di loro, dopo che ne erano stati accumulati almeno tre o quattro, diventavano finalmente un unico voto. Un altro insegnante aveva invece il culto del cinque e mezzo. I suoi studenti prendevano sempre cinque e mezzo, a meno dei pochissimi che riuscivano ad eccellere, di modo che quelli con il cinque mezzo “stabile” restassero con il fiato sospeso fino a giugno, quando il cinque e mezzo poteva trasformarsi in un cinque o in un sei. Il professore, tra l’altro, era un uomo taciturno, introverso, che non spiegava mai ai suoi studenti per quale motivo la sua valutazione rimaneva in sospeso fino all’ultimo giorno dell’anno.

Non vorrei che si pensasse che mio figlio abbia avuto solo cattivi insegnanti e cattivi valutatori, ci mancherebbe altro, e nel libro che ho scritto sulla scuola italiana ho cercato di mettere in luce come siano per primi i ragazzi a capire qual è l’insegnante bravo ed empatico dal quale impareranno davvero qualcosa.

Nella scuola di mio figlio c’era infatti un professore di informatica brillantissimo che ha insegnato a programmare a intere generazioni di ragazzi a Milano, e che amava definirsi un fallito, perché si era laureato in ingegneria, aveva lavorato in azienda per una ventina di anni e, poi, con la crisi del 2008, si era dovuto rassegnare alla professione di insegnante. Forse sono io che sto usando il verbo “rassegnare” per descrivere i racconti che faceva simpaticamente ai suoi studenti: “Sono un fallito!”, come amava ripetere, ma offriva tutto se stesso agli studenti, che non solo imparavano i linguaggi di programmazione, ma sapevano riconoscere la sua autentica passione nel voler trasmettere loro le sue conoscenze. Ecco, se questo insegnante avesse messo cinque sul registro, tutti avrebbero saputo che aveva ragione lui: quel compito non era fatto bene. Ma i ragazzi sapevano anche che se il prossimo compito in classe fosse stato ben fatto, il professore gli avrebbe dato otto.

Ecco, tra tutte le definizioni di valutazione che finora ho trovato, manca solo quella di “valutazione consensuale”, ovvero basata sul consenso tra il professore e gli studenti sulle modalità che usa per valutarli. Può sembrare una semplificazione, ma quando i ragazzi credono nella buona fede di un insegnante che li valuta, perché è disposto a cambiare le sue opinioni su uno studente, provano per lui/lei stima e rispetto. E cosa si potrebbe augurare a un docente se non di “governare” una classe con il consenso dei suoi alunni, senza contestazioni o contrapposizioni, ma in pace e armonia?

Credete sia possibile, a questo punto, permettermi, proprio in qualità di genitore non solo esperto ma anche informato dei fatti (capitati a mio figlio nelle scuole italiane) di dare qualche consiglio ai docenti quando valutano i loro studenti?

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