Scuola

L’evoluzione linguistica e il mistero che interroga la provenienza delle parole

7 Marzo 2021

“The Telex machine is kept so clean
And it types to a waiting world
Her mother feels so shocked, father’s world is rocked
And their thoughts turn to their own little girl”

 

Leggevo questa frase di Recalcati: “Gli insegnanti di cui non ci siamo dimenticati sono quelli di cui noi ricordiamo profondamente lo stile, ossia non i contenuti che si dissolvono nel tempo, ma il modo in cui riuscivano e trasmettere il sapere, che è ciò che resta nella memoria. Insegnare, dall’etimo della parola, è lasciare un segno e il segno decisivo che lascia l’insegnante è l’amore per il sapere.”

Chi insegna una lingua straniera si trova, nel biennio, a insegnare soprattutto lingua intesa nelle sue principali componenti di linguaggio: fonetica, fonologia, morfologia, sintassi, semantica, lessico, pragmatica. Mi capita spesso di soffermarmi sull’uso delle parole.

La capacità di usare parole descrive la capacità di entrare in contatto con l’altro, afferma la possibilità di accesso al suo mondo, è, perciò, alla base del dibattito civile ed è misura della qualità della vita democratica.

Secondo l’Economy Principle, formulato in origine dal linguista francese André Martinet, l’uso, e quindi anche l’evoluzione, di una lingua tende al vantaggio del parlante, individuato proprio nel risparmio delle risorse. “Il parlante, che non è altro che un goffo pasticcione, cerca in genere di risparmiare risorse cognitive per semplificarsi la vita. Ammettere la veridicità di questo principio significa dare, almeno in parte, ragione delle variazioni del lessico di una lingua: riduco il numero di parole per facilitare il mio compito di comunicare.”

Il processo di evoluzione della lingua non costituisce di per sé un problema. Ciò che può invece essere problematico è la perdita della sensibilità linguistica rispetto a parole che, perdendosi, riducono la nostra possibilità di esprimere con precisione un messaggio. La lingua non è un’entità indipendente dall’uomo, e non è di conseguenza indipendente nemmeno dal pensiero di quest’ultimo: svilirla genera l’inevitabile contrappasso dello svilimento del pensiero.

Per quanto riguarda le lingue straniere, impararle non è cosa semplice, soprattutto se, come per il francese, la si sente poco nelle canzoni o nei film trasmessi. Per mia abitudine, faccio usare il quaderno come una sorta di vocabolario in cui annotare ogni giorno le nuove parole incontrate perché non tutti gli alunni le ricercano come si faceva un tempo, quando il vocabolario era uno strumento fondamentale di comprensione. Spesso per fissare regole o strutture linguistiche, faccio parallelismi tra le lingue conosciute dagli alunni.

Nell’incontrare, ad esempio, l’aggettivo “parasseux”, “pigro”, siamo metaforicamente risaliti al concetto di parassita, in altre occasioni ho fatto  loro notare che per innamorarsi l’inglese e il francese ripropongono il concetto di caduta, “to fall in love”, “tomber amoreux”, e affinché il termine resti impresso gioco col verbo “tomber”: il matrimonio è la tomba dell’amore, affermo, avvalendomi della celebre frase di Wilde secondo cui “Il Libro dei Libri inizia con un uomo ed una donna in paradiso, e finisce con l’Apocalisse”. Uso, insomma, strategie che possano servire a ricordare il termine e rendere simpatica l’acquisizione del nuovo lessico.

Mi sono accorta, ad esempio, che il classico “boite”, scatola in napoletano, che deriva proprio dal francese, non è più conosciuta dalle nuove generazioni di ragazzi che ormai, anche quando parlano in dialetto in casa, usano un napoletano non standard ma di loro invenzione, e che il verbo “oublier”, non è associato all’italiano “oblio”, parola un po’ desueta, e quindi alla dimenticanza.

Nella sua officina linguistica, lo Zibaldone, Leopardi afferma:“Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorché chiarissime, ancorché espressivissime, bellissime, utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa”

Le parole, però, sono anche evocazione, fanno affiorare ricordi. Vocabolario ed evocazione, del resto, condividono lo stesso etimo: alla base di entrambi c’è la voce. Le parole si portano dietro la casa un po’ come le chiocciole o le lumache; “oikos”, casa in greco, poi successivamente è passata a indicare l’ecologia, l’ambiente in cui viviamo. Nell’economia domestica, c’è un rimbombo visto che la casa è presente anche nell’aggettivo derivante dal latino domus. Non c’è ridondanza nella domotica che deriva dal francese domotique miscelando l’antica domus con la moderna informa/tica.

Quando a proposito di faux amis dico che “legumes” è “verdura”, mi si fa notare che la lingua è lunatica, ma poiché “siamo a Lunedi,  primo giorno della settimana in cui si riprende a studiare”, qualcuno aggiunge, “ci sta”. Sarà un caso che Bob Geldof scrive I don’t like Mondays, di contro Vasco Rossi ci parla di una Domenica lunatica. Essere dominati dagli influssi lunari significava, un tempo, essere pazza, ossessiva, anche epilettico; l’epilessia era detto morbo lunatico. Astolfo viene incaricato da Dio di recarsi sulla Luna e recuperare il senno che Orlando perde a causa del tradimento di Angelica. Certo che i lunauti scesi dall’Apollo il 20 luglio 1969 non trovarono i seleniti, il cui nome deriva da selene, come i greci chiamavano la luna.

Se si inizia a parlare di navi spaziali alla metà del 900, la possibilità di poterla raggiungere introduce il termine allunare, mentre da qualche anno si parla di “ammartare” visto che il fantascientifico sogno di raggiungere il pianeta rosso è diventato realtà. Se in Mars Attacks Tim Burton ci descrive dei marziani dal volto scheletrico e con le enormi teste, nella realtà l’atterraggio delle sonde terrestri ha sollevato un polverone linguistico: ammartare non piace. Bowie, con la sua  Life on Mars ebbe più successo. Il brano, un classico entrato ormai nella cultura di massa, fu definito un ibrido tra un musical e un quadro di Dalì per le atmosfere surreali e narra della vita di una ragazza che si rifugia nelle immagini sempre diverse dei vari canali televisivi, in cerca di una via di fuga dai suoi litigiosi genitori.

A proposito di Perseverance che ha iniziato a muoversi sul suolo marziano inviandoci le prime immagini reali del pianeta, Michele Serra immagina satiricamente la fantascientifica e ricca spartizione dei viaggi su Marte che vedrà contrapposta i due sfidanti Elon Musk e Jeff Bezos e che condurrà i due multimiliardari a spartirsi le aree di influenza. L’area Nord sarà sotto il protettorato del primo, mentre quella Sud, sotto il controllo del secondo, diverrà un polo logistico per far arrivare dalla terra, su astronavi cargo, l’aria compressa che sarà smistata in tutto il pianeta. Si realizzerà, quindi, la classica economia circolare.

Per quanto riguarda “fantascienza”, negli anni 50, fu un altro termine che non piacque, proprio come più recentemente hanno fatto storcere il naso tanti neologismi che sono parole macedonia come “apericena” che in realtà riprende il concetto inglese di” brunch” che mescola il breakfast e il lunch.

Termini insospettabili che a noi oggi sembrano di uso quotidiano e non disturbano per niente il nostro udito, si sono imposti dopo forti critiche: è il caso di “cantautore”, colui che non necessariamente possiede la voce e lo stile melodioso, produce, però, testi con forti vocazioni letterarie. Nello Zanichelli, alla voce cantautore Guccini spiega che “Gli antichi Romani, giunti in Africa, si trovarono di fronte a uno strano animale che non avevano mai visto prima: la giraffa. Ma non lo chiamarono così. Come stazza poteva ricordare un cammello; come colore un leopardo. Fu quindi “camelopardo” Ecco cosa sono i cantautori, tutti camelopardi, un essere mutevole, donna bella nella parte superiore, ma che mostruosamente in quella inferiore finisce in pesce.”

Spesso dimentichiamo che tutte le parole che usiamo sono state un tempo parole nuove. Molti vocaboli scientifici dell’italiano provengono storicamente dal latino e dal greco, ma anche, soprattutto durante il medioevo, dall’arabo. Così è per termini astronomici come zenit e azimut o aritmetici come cifra e zero. Sempre dall’arabo viene la parola algebra che significa: completamento, unione, connessione.

Se alcune parole sono polisemiche come la parola francese “bois” che indica il legno, il bosco e corrisponde anche alle prime due persone singolari del verbo bere, altre come la parola “scala” hanno in inglese più traduzioni: ladder, stairs, staircase e scale.

Le frasi fatte poi sono enigmatiche e perciò affascinanti. Per alcune costruzioni radicate nella lingua, bisogna risalire alle origini del linguaggio, a volte si trovano un’infinità di possibili storie sulla genesi e l’evoluzione dei costumi e comportamenti che hanno dato origine a modi di dire conservati fino ad oggi. L’indagine filologica ci dà l’opportunità di scavare in vicende spesso impregnate di sostanza culturale, altre volte il risultato è di grande comicità, se non addirittura deludente. Se quest’opera di scavo avviene nei confronti di una lingua straniera, ne può risultare un esercizio di letteratura comparata. Ci siamo mai chiesti ad esempio perché diciamo che una cosa cara ci è costata “un occhio della testa” (un occhio è posizionato ovviamente sulla testa), mentre un anglofono paga “an arm and a leg”, o perché quando dobbiamo affrontare un periodo difficile diciamo “strigere i denti” mentre un anglofono direbbe “to bite a bullet”. Alcune frasi fatte sono arcaiche come “to rain cats and dogs” che significa “aggiungere l’insulto alla ferita”, altre come “The elephant in the room” sono divenute di uso comune, ma diversamente da ”l’elefante nella cristalliera” che in italiano significa non aver tatto, in inglese vuol dire ignorare qualcosa perché è scomodo da affrontare. Quella che trovo personalmente originale, invece, è “Barking up the wrong tree”, modo di dire che risale al mondo della caccia, quando i cani cacciavano animali selvaggi e pensavano erroneamente che la loro preda si nascondesse dietro un albero. L’espressione ha, perciò, il significato di “prendere un granchio”, addurre motivazioni sbagliate sull’accadimento di eventi.

Opera onirica e metalinguistica, spesso definita come intraducibile è il Finnegans Wake di Joyce dove la lingua è proteiforme e non priva di giochi di parole, neologismi, perfino lallazioni e altri linguaggi infantili. Joyce è   stato capace di riscrivere la Creazione in senso atomistico: Adam and Eve divengono Atoms and ifs, semplici “atomi e se” perché, crede, che il passato può essere riscritto, rinarrato, ovvero narrato di nuovo, ma anche ri-veduto attraverso l’interazione di immaginazione e memoria. Quell’etimo/atomo diventa per Joyce un annichilimento dell’etimo, della statica origine di ogni parola, che anela a una ricreazione del caos primordiale, una possibilità, cioè, di cosmo nuova e plurale senza frontiere, distinzioni o identità fisse.

Il suo intento è quello di fare letteralmente esplodere una lingua non sua, l’inglese dei colonizzatori britannici. Tradurre l’intraducibile significa, dunque, venire a patti con i significati che realmente riusciamo a trasmettere.

In un momento storico come il nostro in cui tornano cruciali concetti come verità, inclusione e integrazione, continuare a tradurre Finnegans Wake non può che essere un atto profondamente politico, un tentativo di sfuggire alla mancanza di senso riprendendoci ciò che abbiamo di più caro: le parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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