Scuola

“Lettera a una professoressa”, una rilettura critica

6 Maggio 2015

Non voglio entrare nel dettaglio nell’articolato del ddl sulla”Buona scuola” oggetto di contestazione e dello sciopero di ieri:  troppo complicato dopo quasi cinquant’anni di scasso capire quale può essere la carta vincente per riformare il carrozzone della scuola. Plaudo sicuramente al fatto che il governo vi abbia messo mano: un governo che si definisca riformista e che escluda la scuola dal proprio orizzonte non sarebbe tale.  In linea di principio il paventato “tutto il potere ai presidi” visto come un avamposto dell’autoritarismo  (“No a un solo uomo al comando” dice Camusso) in un Paese anarco-individualista e di fatto ingovernabile come il nostro, sarebbe auspicabile  dopo decenni di inconcludente assemblearismo e collegialità (leggi “pansidacalismo”, ovvero strapotere di quel sindacato che secondo la prof Mastrocola in un’intervista al “Mattino” di ieri avrebbe  “rovinato non solo la scuola ma l’Italia”).  Con uguale favore vedrei l’indizione dei  concorsi per l’accesso all’insegnamento, che mi sembra il minimo “sindacale” visto che la mancata selezione in tutti questi anni e il rigonfiamento del precariato spesso gestito clientelarmente proprio da quel sindacato ottuso e reazionario, ha contribuito non poco all’abbassamento della qualità dell’intero corpo docente. Non mi piace per nulla il finanziamento seppur indiretto delle scuole private (leggi cattoliche) che probabilmente è una regalia per tenersi buone le gerarchie ecclesiastiche.

Visto che con queste sole osservazioni mi sarò alienato le simpatie dei due terzi delle insegnanti democratiche aggiungo anche alcune osservazioni su don Milani che mi faranno guadagnare le antipatie  dell’ultimo terzo.  E lo faccio perché provocato da Pietro Grasso.  Ieri l’ineffabile Presidente del Senato  ha dichiarato  tra le altre cose che non solo incontrerà gli insegnanti in sciopero (che sarà  nelle sue facoltà solo per esornativo straripamento della funzione di rappresentanza) ma che «la scuola è dei docenti e degli studenti»; un’evidente assurdità, visto che la scuola appartiene non solo ai soggetti attivi e passivi dell’insegnamento, ma alla Nazione, quindi anche a me.  Nella circostanza Grasso ha avuto modo di citare don Milani in maniera molto generica alludendo all’arte di “camminare per mano”. Don Milani è la personalità  di riferimento in tema di scuola, ed è di prammatica in questi casi presso un uditorio di sinistra. Ma il riferimento è tanto corrivo che temo, come tutti i discorsi inverificati passati nel senso comune,  che  tale uditorio non abbia mai letto o riletto  “Lettera a una professoressa” dandola per scontata. Vorrei perciò ricordare una polemica di qualche decennio fa su questo testo celeberrimo di don Milani, segno che in Italia l’attualità è data anche non dal fatto dell’irrompere di un evento nuovo sulla scena politica, ma dalla riproposizione eterna di vecchi nodi che non si sciolgono mai.

La rilettura della “Lettera a una professoressa” venne promossa con aspra abilità dialettica e corrosivo spirito polemico da un intellettuale che stimo molto: Sebastiano Vassalli. Debbo tuttavia, a corredo delle riproposizione delle sue tesi, spendere qualche parola su di lui a partire da qualche dato biografico. Sebastiano Vassalli ha scritto uno dei libri più belli e più duri sulla Sicilia: “Il cigno” (Einaudi 1993)  per il quale venne attaccato da molti siciliani proprio per delitto di lesa maestà isolana. “Il cigno” è un libro sulla mafia, come poteva essere altrimenti?, ma è un libro che ha delle pagine intense e verghiane sul popolo siciliano, colto nel momento storico dei “Fasci” – l’unico tratto della sua millenaria storia in cui un popolo fatalista e passivo si è ribellato. Forse è per questo che il tema ha incontrato l’interesse di uno scrittore ribelle e fumino come Vassalli. Sono pagine scritte da un autore che, come i veggenti, ha intravisto la Sicilia dalle brume del Nord. Non credo che ci sia mai stato. Ma attraverso il suo regard éloigné ne coglie l’essenza storica e antropologica meglio di un neghittoso e autolatra  residente. A dimostrazione che nulla sfugge a chi si sa documentare. Il resto ce lo mette il poeta. E Vassalli lo è. Un poeta duro, atrabiliare, cattivo forse, ma vero e diretto.

Con lo stesso spirito l’ex insegnante  Vassalli ha massacrato con ardore e intelligenza don Milani e la sua “Lettera a una professoressa” (nel volume “Gli italiani sono gli altri”, Baldini e Castoldi, 1998). Mi sono avvantaggiato delle sue considerazioni su quel prete da “Attimo fuggente” ma violento – don Milani usava la frusta e lo dice -, il quale è forse, col suo confuso ribellismo populista, insieme a certo ’68 antiautoritario, uno dei massimi responsabili dello sfascio della scuola italiana, ormai insanabile come una brocca rotta in mille pezzi. Vassalli ha atteggiamenti sprezzanti e iconoclasti; come ogni lettore partecipe che abbia un rapporto viscerale con i libri, dice sì sì, no no, e il resto è del Maligno.  L’accusa di lassismo a don Milani e alla sua “Lettera a una professoressa” è precisa e circostanziata.  Vassalli ha parole di fuoco: «L’ho detto e lo ripeto: la “Lettera a una professoressa” fu una mascalzonata, e, se esiste il Paradiso, don Milani certamente non c’è. Del resto lui è poi diventato quello che meritava di essere, un Santo molto terrestre, il Santo patrono di tutte le ignoranze, di tutti i lassismi, di tutti gli opportunismi e di tutte le furbizie di chi ha operato nella scuola in questi anni, dagli allievi agli insegnanti ai ministri. Era questo che voleva? Io non lo so, ma so che questo è successo».

Un uomo e un libro – benché tutta la storia delle idee non sia fatta che da uomini e libri-, non possono determinare da soli un orientamento collettivo così vistoso se già esso non è in qualche modo presente nella società, seppur come cosa che ancora nome non ha. La prospettiva inoltre dell’eterogenesi dei fini (parto per fare una cosa e ne raggiungo un’altra) già adombrata da Vassalli nel dubbio che non era forse proprio questo l’intento di don Milani, ma che ne è stato il sicuro effetto, mi lascia inizialmente un po’ perplesso circa la precisa attribuzione in toto al prete di Barbiana di tale responsabilità. Ma se riprendo il testo di don Milani in mio possesso  (Scuola di Barbiana, “Lettera a una professoressa”, Libreria editrice fiorentina, 1967) scopro  che in questo libro c’è un po’ di tutto e di molto confuso; oltre al proposito dell’abolizione della bocciatura, vista come odioso strumento della lotta di classe e di selezione scolastica, dei ricchi a danno dei poveri (che, secondo Vassalli, costituisce però il vero varco ideologico attraverso cui sarebbero passati tutti i permissivismi successivi), c’è anche ad esempio il bizzarro caldeggiamento del celibato agli insegnanti di cui don Milani quanto meno esorta a dirne bene in quanto esso non è «una disgrazia, ma una fortuna per essere disponibili a pieno tempo» (pagg.86-87). Ci sono anche amene bizzarrie come  l’abolizione della matematica e la riduzione della pedagogia «a una sola paginetta» alle magistrali (pag.119), ma anche una polemicuccia rancorosa circa l’orario di lavoro degli insegnanti definito «indecente» da don Milani e non giustificabile dalla scusa da essi accampata della correzione dei compiti a casa (anche i magistrati dice don Milani devono redigere le sentenze), né dallo stress psicofisico della tenuta d’aula (andatelo a dire a «un operaio alle presse che corre il rischio di perdere le braccia», chiosa demagogicamente don Milani), ma soprattutto, la scusa dello stress, viene a cadere se gli insegnanti trovano poi il tempo per le lezioni private (pag. 88). Tutti i termini, come si vede, di una polemica che non è difficile rintracciare ancora oggi, ma presso l’elettorato di centrodestra, quello che ha individuato anche nell’ insegnante il suo “fannullone” e che non credo verrebbero ripetuti dagli insegnanti democratici di oggi che pure al suo pensiero si richiamano spesso.

Infine, e debbo la “dritta” ancora a Vassalli, c’è nella “Lettera a una professoressa” una confessione che farebbe passare per progressista l’adozione del “cinque in condotta” a suo tempo introdotto dalla Gelmini, ossia l’uso… della frusta. «Noi per i casi estremi si usa anche la frusta. Non faccia la schizzinosa e lasci stare le teorie dei pedagogisti. Se vuol la frusta gliela porto io, ma butti giù la penna dal registro. La sua penna lascia il segno per un anno. La frusta il giorno dopo non si conosce più» (pagg. 82-83). L’uso mediopassivo («noi… si usa») della forma verbale toscaneggiante della prima parte della citazione esclude che siano Gianni o Pierino –  gli alunni della scuola di Barbiana – a usarla, ma proprio il parroco, don Milani, che peraltro si svela nella seconda parte («gliela porto io» ). L’uso della frusta di un pedagogo “manesco e autoritario”, come lo definisce Vassalli, confligge però con l’accusa di lassismo avanzata nei suoi confronti. Ci conferma piuttosto nell’ipotesi degli effetti non desiderati (che anche Vassalli in più punti adombra) suscitati dall’enorme successo del libro di don Milani e della sua adozione “spontanea” da parte del Movimento studentesco che vi vide – fatto ancor più grave – in quel clima effervescente e confuso, una  « “ concezione collettivistica dell’educazione vista come indottrinamento”: una concezione non dissimile – per chi ha ancora memoria di quegli anni – dai modelli educativi della cosiddetta “rivoluzione culturale” cinese» (Vassalli, cit, pag. 17).

Il libro di don Milani cadde in un contesto incandescente che ne determinò la fortuna e ne alimentò la mitologia di “manifesto dell’antiscuola” e della contestazione scolastica. L’esortazione di Vassalli di andarlo a rileggere e meditare è uno dei meriti non secondari della sua virulenta invettiva. Per noi il libro della scuola di Barbiana resta però poco più di una spia indiziaria, una traccia, ma va inserito sicuramente non solo nella celebrazione di ogni discorso circa la democraticità della scuola, ma anche come punto di avvio del disastro cui oggi si vorrebbe porre rimedio. E credo che la sua rilettura gioverà a ricostruire questo contesto storico piuttosto che aiutarci a capire la scuola di oggi, ove paradossalmente si sono invertite le parti rispetto al Sessantotto, essendo gli insegnanti perlopiù orientati a sinistra e gli studenti a destra perché a destra è la società nel suo complesso, e ove, comunque, lo scenario è totalmente mutato rispetto a quell’Italia degli anni Sessanta povera e arretrata in cui gli studenti figli di contadini alla fame e di operai sradicati sono tutt’altra cosa rispetto a quelli di oggi nati e vissuti nella “società affluente”, piena di stimoli, dove però può accadere il paradosso di scambiare il mondo reale (che per gli studenti è però quello dei cellulari, Ipod, TV, Internet) con quello virtuale, ossia tutto il resto.

E però i problemi sono sempre quelli. Occorre pertanto aggredirli e risolverli, una volta tanto dimenticando un testo come “Lettera a una professoressa” o invece riprenderlo per rivederne le bucce.

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