Scuola
La violenza a scuola, riflesso di una società violenta
“Se devi tirare un pugno in faccia a uno, e in un certo senso ti va pure di farlo, allora lo devi fare. Solo che io non sono capace. Preferirei spingerlo più dalla finestra o decapitarlo con un’ascia piuttosto che mollargli un pugno in faccia” (The Catcher in the rye)
È accaduto a Gallarate, provincia di Varese, terra benestante tutto sommato. Treni che ogni mattina portano studenti e lavoratori nella vicina Milano. Un posto come mille altri dove a novembre una giovane insegnante di Lettere dell’istituto tecnico-professionale Ponti svolge in classe una lezione sul tema del rispetto. Bene. Tutti ad applaudire, compreso il fatto che all’istituto Ponti si autodefinisca “realtà di avanguardia e di inclusione”.
Se c’è una materia urgente da spalmare sulla sensibilità degli studenti è proprio quella di rispettare sé stessi e il prossimo. Così la professoressa affronta il guaio della tolleranza che latita e intanto il tempo in aula scorre finché sulla cattedra compare il disegno di una svastica: cioè il nazi-simbolo più distante dai valori fino a quel momento proposti. Abbastanza perché la prof chieda chi è stato l’autore e l’autore dell’impresa le assesti un pugno in faccia. Anzi, entrando ancora più nel dettaglio: il cazzotto attera sul volto della docente perché ha osato intromettersi nell’epilogo rissaiolo tra il ragazzo estroso al punto di disegnare svastiche e i compagni che lo hanno smascherato non condividendo la bravata.
Dopodiché da Aosta a Pantelleria, leggendo la notizia, si è scatenata una serie di commenti in stile “Vergogna”, “Non è possibile”, eccetera. Indignazione massiccia, insomma, oltre che richiesta di punizioni esemplari e rabbia per il destino amaro di chi si azzarda a insegnare il modo di abitare il mondo senza maltrattare gli altri.
Nulla di strano, ci mancherebbe: l’episodio in questione è sintesi di un disastro antropologico che toccherà studiare a posteriori, ma nel frattempo è un atto dovuto non fare gli ipocriti. Cioè non sbarrare gli occhi o spalancare bocche per lo stupore quando a due passi dalla Svizzera – e non nel Sud a cui i paladini del cialtronismo intestano di default l’accoppiata illegalità – inciviltà- la scuola è vittima di ignoranza e di violenza. Perché ci meravigliamo? O sarebbe da dire, ci meravigliamo?
Chi si è speso in questi decenni per valorizzare gli istituti scolastici, i suoi sottopagati professionisti, il suo ruolo prioritario nel Paese? Nessuno. Pessima la retorica della politica, incapace di risollevare un segmento prezioso della democrazia. Sgangherato, spesso, l’intervento di madri e padri schierati a prescindere in difesa dei pargoli. Indecente, nell’insieme, di noi intera comunità, attenti alla scuola finché la frequentano i nostri pargoli e poi bye bye.
Gallarate, la svastica, il pugno, non possono essere oggetto di stupore. Sono routine, conseguenza del disimpegno attorno all’istruzione. La condanna a un anno di sospensione per lo studente pugile non basterà a cambiare le cose, e forse neppure la sua consapevolezza.
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