Scuola
La scuola non è una scatola da riempire
La Ministra Azzolina ha proposto il rientro a scuola a settembre, per tutti, in sicurezza. Ha affidato la protezione dai contagi a due misure ritenute indispensabili:
– ridimensionamento dell’orario scolastico da 60 a 40 minuti;
– taumaturgici divisori di plexiglass da utilizzare per separare i banchi e per rendere icastico il concetto di distanziamento.
Purtroppo, per ingenuità – comunque non consentita a chi dirige un ministero – o per inadeguatezza al compito, la Ministra non ha considerato che la vita scolastica non si svolge affatto solo in classe e che erigere muri -per quanto trasparenti – tra persone non basterà davvero a evitare gli eventuali contagi. Chi bloccherà, infatti, il virus quando i ragazzi si riverseranno nei corridoi per andare in palestra a fare sport, come si proteggeranno da gocce di saliva e sudore, dal respiro affannoso di corpi impegnati in esercizi ginnici? Chi fermerà i contagi quando gli studenti si accalcheranno in strada all’inseguimento dell’ultimo autobus utile per raggiungere la scuola e chi impedirà la diffusione del virus quando corposi gruppi di giovani resteranno chiusi, addossati come sempre, nello spazio angusto del bus, in attesa della fermata davanti alla scuola? Chi eviterà gli assembramenti, ai cambi dell’ora e nei momenti di ricreazione, nei bagni e davanti alle macchinette che distribuiscono bibite? Nessuno, perché è impossibile: la fame di vita che anima i giovani è più forte della paura.
Il plexiglass non è la soluzione.
Sulla scuola ormai da anni continuano ad affastellarsi idee deliranti, frutto di chi ignora completamente le dinamiche che caratterizzano la realtà tra le mura degli istituti aperti a studenti di tutte le età e con esigenze in parte comuni, ma nello stesso tempo diversificate. Il modo di comportarsi dei bambini e degli adolescenti, che con la fisicità hanno un rapporto conoscitivo e devono imparare a commisurare il loro corpo in trasformazione con lo spazio che li circonda, richiede attenzioni che variano dall’infanzia fino ai diciotto anni. E di queste differenze bisogna tener conto. All’asilo giocare sul pavimento e toccare oggetti con le mani e portarli alla bocca è normale: non si può ipotizzare la visiera di plexiglass e inibire comportamenti fondamentali per la conoscenza di sé che ogni bambino deve poter affrontare. Sarebbe meglio pensare a frequenti igienizzazioni degli oggetti, dei pavimenti, delle superfici. Alle medie e alle superiori fare esercizio fisico in palestra e sudare, correre, inspirare ed espirare è essenziale (lo dicevano gli antichi: mens sana in corpore sano) e non lo si può fare con barriere e visiere di plexiglass.
Insomma, bisogna essere chiari: se la pandemia non c’è, che la scuola riapra, serenamente. Ma se il virus non si è spento e i rischi sono troppi per studenti e docenti – che in Italia non sono poi così giovani e forti – allora la riapertura delle scuole non è ipotizzabile.
Il plexiglass sul volto e tra i banchi non è la soluzione. La riduzione dell’orario a 40 minuti di lavoro in aula non è la soluzione, chiudere i ragazzi in scatole trasparenti non è la soluzione. Immaginare muri di plastica che isolino gli individui dimostra la superficialità di base degli ideatori dei box in plexiglass (Ingegneri? Architetti? Arredatori? Certo non pedagogisti!) e la loro scarsa dimestichezza con la vita che pulsa nei luoghi destinati alla formazione e alla crescita dei nostri figli.
Non servono montagne di plastica per rinnovare la scuola. Non è questa la ricetta vincente.
Purtroppo, va detto, l’Italia non ha un piano, perché non ha mai pensato seriamente alla scuola.
Si è passati dalla celebrazione acritica e tecnoentusiastica della didattica a distanza, alla demolizione totale e assoluta delle modalità di insegnamento digitale. Lo sperpero di denaro pubblico è sotto gli occhi di tutti e non vale neanche la pena elencarne tristi esempi. La scuola non ha bisogno di molto, si “accontenta” di persone. La soluzione al “problema scuola” è semplice e chiara: servono docenti che si prendano cura di piccoli gruppi di 10/12 studenti, occorre una dimensione umana per imparare a vivere, non solo a sopravvivere.
I costi? Certo ci saranno: si tratta solo di non disperdere le risorse economiche in miriadi di provvedimenti allettanti, ma non risolutivi, e di reindirizzare il denaro da obiettivi non urgenti, discutibili e dettati da interessi particolari, a ciò che invece è importante ora: i nostri ragazzi, la loro vita, il futuro di tutti.
Roosevelt diceva che la scuola deve essere l’ultima spesa su cui bisogna economizzare.
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