Scuola
La scuola e il vuoto
Le parole del ministro Bussetti sulle scuole del sud – “Vi dovete impegnare forte. Questo ci vuole. Lavoro, impegno, sacrificio” – sono una bestialità ed offendono lo straordinario lavoro quotidiano di migliaia di docenti meridionali. Bisogna dire però che la domanda del giornalista cui rispondevano è non meno bestiale: “Cosa arriverà di più qui al sud per recuperare il gap con le scuole del nord? Più fondi?”. Un giornalista che peraltro non aveva ascoltato, a quanto pare, quello che Bussetti aveva detto solo qualche secondo prima, e cioè che non esistono scuole del nord e scuole del sud, ma solo scuole italiane. Con buone ragioni. Ho insegnato per più di dieci anni in scuole del sud, dalle medie ai professionali e ai licei, e da qualche anno insegno in Toscana. Dove ho trovato scuole che hanno problemi gravissimi e che si trovano a fronteggiare problemi di forte disagio sociale senza avere i fondi necessari per acquistare anche quel minimo di strumentazione informatica richiesta dalla svolta digitale della scuola italiana.
Ma quella domanda rappresenta una bestialità soprattutto perché riduce i complessi problemi della scuola ad una semplice questione di fondi. Che la scuola abbia bisogno di investimenti è ovvio. Investimenti sulle strutture, che cadono a pezzi; investimenti sulla valorizzazione dei docenti, che sono malpagati e sempre meno socialmente apprezzati; investimenti nella sperimentazione educativa e didattica. Ma è ingenuo e superficiale ritenere che basti dare più soldi alle scuole per superare i numerosi gap del nostro paese, e non solo del sud.
La principale piaga italiana, nel campo dell’istruzione, è l’abbandono scolastico. Al di sotto dei 25 anni il 17,25% dei giovani hanno abbandonato la scuola prima di conseguire il diploma; siamo il penultimo paese nell’area OCSE. E l’abbandono scolastico è un sintomo di disagio sociale. Abbandona la scuola il ragazzino che non ci crede, alla favola bella che se ti impegni e studi e prendi una laurea poi otterrai un lavoro che ti consentirà di fare una vita come si deve; e non ci crede perché ha spesso dei docenti precari, che nonostante la laurea faticano a tirare avanti e pagare il mutuo, e perché conosce chi sta anche peggio: ragazzi con una laurea che sbarcano il lunario con lavoretti precari, quotidianamente umiliati da una società che non sa cosa farsene della loro preparazione e della loro passione. Ma abbandona la scuola anche, e più spesso, il ragazzino che non riesce a trovare una mediazione tra il suo mondo culturale e quello scolastico. Quando insegnavo italiano nelle scuole medie di Foggia mi capitavano studenti per i quali la lingua quotidiana era il dialetto. L’italiano una lingua straniera, ed estranei, ostili tutti i valori sui quali è centrata la scuola. Non basterebbe far le scuole d’oro per superare un gap di questo tipo, che è culturale. Bisognerebbe, piuttosto, cambiare la scuola. Da tempo diversi pedagogisti, inascoltati quando non derisi, cercano di attirare l’attenzione sulla questione dei compiti a casa, ad esempio. Un bambino seguito a casa da un genitore analfabeta è un bambino che in un momento essenziale della sua formazione, quello dell’applicazione delle conoscenze, è lasciato solo. Mentre altri bambini vengono seguiti, lui, che non ha che sé stesso, resta inevitabilmente indietro. Se è la famiglia a dover completare il lavoro della scuola, anche sul piano strettamente didattico, allora la differenza tra una famiglia colta e una famiglia di analfabeti diventa decisiva. Fatale. E’ uno dei meccanismi che fanno della scuola italiana una delle meno efficaci nel contrasto della disuguaglianza sociale. Un altro è la lezione frontale, che resta la base solida e indiscussa della scuola italiana, che può funzionare bene, forse, in condizioni di normalità, ma che in contesti difficili non può che lasciare il campo a metodologie più attive e coinvolgenti.
Più che di soldi, insomma, bisognerebbe discutere di che tipo di scuola vogliamo, di quale tipo di didattica e di educazione, e ovviamente (perché sempre di questo si tratta, quando parliamo di scuola) di quale società vogliamo. Ed è qui che appare evidente il vuoto di Bussetti. Il governo Renzi aveva provato a dare una direzione alla scuola. Una scuola centrata sulle tecnologie informatiche (con l’introduzione dell’animatore digitale, una figura di sistema, ma non pagata), sull’alternanza scuola lavoro, sul protagonismo dei dirigenti, sulla valorizzazione dei docenti più bravi o presunti tali. Una visione fortemente discutibile, ma pur sempre una visione. Il governo attuale non ha alcuna idea di scuola e di educazione, a meno che non si vogliano elevare al rango di idea le penose volgarità di Salvini sugli schiaffi educativi.
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