Scuola

La scuola di emergenza

25 Marzo 2020

Molto astratto il ragionamento di chi dice più o meno  “L’attuale scuola on line può diventare un modello per il futuro”. Astratto e a mio avviso pericoloso nel suo granitico ottimismo progressista. Discorso  praticato spesso da chi la scuola non la vive in concreto ma ne discetta da lontano, dalla distanza della teorizzazione pedagogica accademica  (nel migliore dei casi) o della retorica politica, giornalistica, economica o opinionistica, nel peggiore. Almeno questo ad un’impressione superficiale fornitami dalla lettura di alcuni contributi, anche su questo giornale on line.

Solo alcuni esempi, per entrare un po’ nel tecnico (cosa che vorrei tuttavia qui ridurre al minimo). Di fatto gli interventi on line, per me e la stragrande maggioranza dei miei colleghi (laddove essi abbiano internet attivo in wi-fi e non siano costretti a inviare per email materiale che gli viene restituito in seguito  – si spera non attraverso piccioni viaggiatori – per correzione o feedback) si riducono  alla videolezione-videoconferenza. Altre modalità che già sperimentavamo, laboratori o piccoli gruppi orizzontali cui si affidino “compiti di realtà”,  in stile clil sono impraticabili:  lavorare per gruppi è quasi impossible in video-lezione, semmai si possono tentare esperimenti di flipped classroom. Ma anche queste metodiche, e molte altre,  belle in teoria, in questo stato di eccezione  si rivelano difficilmente praticabili,  gravose,  onerose in termini di tempo ed efficacia, in una pratica dove il vissuto emotivo esistenziale di insegnanti e alunni (gli uni e gli altri costretti negli spazi angusti di una coabitazione familiare talora affollata – per sacrosante ragioni di pubblica sanità)  è impastato di ansia, di una molteplicità di fattori concomitanti che, date le circostanze emergenziali,  precipitano confusamente a comporre un reticolo di sovraccarico cognitivo, psicologico ed affettivo difficilmente gestibile. I bias da retorica pedagogica e psicosociale entrano in gioco dall’alto a formulare e rilanciare teorie che puntualmente falliscono nella pratica sul campo. Il lavoro, del tutto encomiabile, che molti insegnanti, ed io tra questi, stanno facendo, è inaspettato e atipico, e aggiungerei molto generoso, in questo tempo emergenziale. Ed è del pari encomiabile la maturità e responsabilità che sta dimostrando la maggioranza degli alunni, le famiglie dei quali ci ringraziano. E’ certo sicuramente che da questa esperienza si potrà in seguito  imparare molto, ma non nel senso di far travasare sic et simpliciter questo modello da emergenziale in un alveo di normalità,  quanto piuttosto direi, nel dismettere i modelli di controllo previsionale totipotente dei processi educativi da parte del supposto-sapere (Lacan) tecnocratico. Decostruire l’illusio accademica di cui parla Bourdieu, se mi è permessa una citazione filosofica.

Alcuni colleghi mi inviano mail e comunicazioni che vorrei qui riportare, per rendere percepibile il senso della pratica scolastica concreta al tempo del coronavirus. Sul campo, o in trincea, come la metaforica bellicista pare dover imporre stilisticamente.

«Sono molto meglio le lezioni “fisiche” perché, al di là delle problematiche tecniche, la lezione on line è più faticosa, mentalmente e fisicamente, sia per noi docenti che per gli alunni. Dunque, in questa situazione di emergenza e di assoluta novità, ci troviamo tutti a svolgere un lavoro nei limiti del possibile.»

«In questi giorni i ragazzi hanno una paura tremenda, sono turbati, smarriti, in ansia e agitazione, si sentono soli, hanno perso i contatti diretti con il loro gruppo di pari e la loro routine è stata completamente stravolta. Quello di cui hanno bisogno è supporto educativo ed emotivo, ossia di essere sostenuti, rassicurati e protetti, e non ulteriormente angosciati e stressati dalla didattica a distanza, dal carico di lavoro che comporta, dalla paura di rimanere indietro, di non riuscire a seguire tutto quello che viene detto dai professori, o ancora che il computer, il tablet o il cellulare non funzionino, che la connessione non prenda o salti, che il compito o la prestazione richiesta non arrivi in tempo. La didattica online può essere utile e valida ma non sostituisce la relazione educativa e il contatto diretto che avveniva faccia a faccia e non può essere una forzatura né a livello didattico né educativo in un momento in cui i bisogni di sicurezza di tutti sono stati turbati».

« Gli studenti seguono le lezioni e sono sempre presenti, ma ritengo trascorrano troppe ore davanti al monitor. Non si hanno tempi distesi che favoriscano la rielaborazione  autonoma dei contenuti. Ritengo che, data la situazione, sia utile l’utilizzo delle lezioni on line, ma senza esagerare».

«Le lezioni a distanza sono certamente complesse e faticose; talvolta gli studenti sono scorretti: escono dal sistema o semplicemente disattivano audio e video e non seguono. La formazione a distanza rappresenta comunque e certamente una grande opportunità. Ma ha anche molti limiti. (…) Anche gli psicologi invitano a stare attenti alle lezioni online perché possono sembrare “più leggere” ma in realtà sono molto più stressanti a livello cognitivo e psicologico, sia per gli alunni che per i docenti».

«Ogni tanto ho problemi di connessione, ed è un tema da non sottovalutare».

E si badi io lavoro in una scuola fortunata, dove sono a disposizione tecnologie informatiche che rendono agile la didattica a distanza, e forniscono ad alunni ed insegnanti i dispositivi informatici per potersi collegare e lavorare da casa. Mi chiedo quanto ciò sia attuabile in altre aree geografiche dalla penisola (ma il discorso è globale, penso a paesi in cui il web e la tecnologia connessa non è così diffusa).

La scuola “smart-coronavirus” è certo  «più vicina» di quella in presenza corporea, ma è talmente più vicina e intima che diventa quasi fusionalmente infiltrata e incistata  nella vita personale del docente e dell’alunno, così  da risultare ossessiva, onnipervasiva, assediante: si rischia di  perdere anche il senso del sano e pedagogicamente necessario distacco  con la vita quotidiana, nonché con la relazione asimmetrica – seppure empatica – che deve sussistere tra docente e discente. Per quel che mi concerne, sono contattato dai ragazzi a qualunque ora del giorno, tramite mail, messaggi, altri mezzi social, per chiarire un tema, un concetto, una richiesta, un compito assegnato, o anche solo per rassicurare, placare, confortare. Da una parte è un bene, certo, mi fa sentire utile e mi piace anche, mi ridona il senso autentico e quasi missionario della professione che ho scelto, dall’altra però rischia di creare,  e di fatto crea in me uno stress emotivo, cognitivo, psicologico gravoso. Certo meno gravoso di medici e operatori sanitari che combattono in prima linea, che rischiano anche la vita, ma comunque da non sottovalutare. Talvolta la sera non riesco più neppure ad avvicinarmi ai dispositivi quali cellulare, portatile, computer e anche solo tv. Avrei bisogno di respirare,  di meditare,  di camminare , di riprendere una normale attività fisica:  ma non si può! (Questa è la condizione di tutti, e la accetto, come tutti con fatica.)  Oltretutto il rischio di prof à la carte è molto forte. Tu ci sei sempre, quasi il terminale di un videogame. Insomma, si è venuta di fatto creando una scuola totale e questo costituisce qualcosa di molto ambiguo e pericoloso:  non è certo la comunità di vita e di apprendimento di cui parlano i migliori pedagogisti, educatori e filosofi, ma inclina ad essere  il surrogato e la funzione vicaria che  – date anche le condizioni emergenziali – tanto le famiglie quanto gli altri dispositivi educativi a distanza (quali?) non possono porre in essere. Rettifico in parte quanto ho appena detto: non si tratta propriamente di scuola-videogioco. I ragazzi hanno capito, forse per la prima volta, che l’uso  – per lo più ludico – che prima facevano dei dispositivi informatici, si è connotato del sapore professionale di uno strumento faticoso,  maturo, serio, lavorativo.  La scuola attuale è  molto più vicina a una scuola d’emergenza (o “di guerra”, anche se il lemma non mi piace)  che non a una calma e normale smartschool, variante dello smartworking che si paventa come un futuro obbligato, secondo quanto  molti giornalisti , politici,  pedagogisti e tecnocrati sembrano improvvisamente riscoprire e enfatizzare con talora irriflessivo entusiasmo.

Concludo questo contributo citando un brano della stupenda lettera che ha scritto il mio amico e maestro Giancarlo Loffarelli, che restituisce un senso di speranza e di autenticità a quest’ orizzonte che ho fin qui adombrato in maniera piuttosto pessimistica.

«La mattina la dedico a tenere lezione in videoconferenza con i miei alunni. È una gioia ritrovarli e parlare con loro, incoraggiarsi a vicenda e cominciare a parlare di Marx e degli accordi di Plombierès, di Bach e di Fellini. È bello accogliere la loro spontaneità nel seguire le mie lezioni standosene in pigiama, seduti sul letto disfatto davanti al loro smartphone. Ciò che ho sempre pensato, ora lo vivo in maniera profonda: la scuola è soltanto la relazione che intercorre tra l’allievo e il docente. Il resto è contorno.»

La scuola, come la vita,  è soprattutto relazione integrale tra persone in carne e ossa . 

Siempre adelante, quindi,  ma con juicio

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