Scuola

LA SCUOLA BILINGUE: UNA PROPOSTA

27 Novembre 2014

A volte, parlare di bilinguismo in un Paese a forte immigrazione, che sente magari anche minacciata la lingua della maggioranza relativa degli abitanti (i quali, spesso, non sono che i discendenti di antichi immigrati africani, come tutti noi appartenenti a homo sapiens), può suscitare reazioni controverse. Proprio di questo, dunque, cercheremo di occuparci in questo intervento, riservando a future sollecitazioni da parte dei lettori ulteriori doverosi approfondimenti, come per esempio, l’influenza del bilinguismo sull’apprendimento delle lingue e sulle capacità cognitive dei bambini e degli adulti.

Definiamo “bilinguismo”, in accordo con François Grosjean (Bilinguismo, miti e realtà, in uscita a gennaio presso l’editore Mimesis), l’uso regolare di due o più lingue (anche dialetti) in diversi ambiti sociali o lavorativi. Quindi, la definizione riguarda una persone poliglotta o plurilingue. Un bilingue non è da intendersi, però come qualcuno che parla due lingue in modo perfetto, senza alcuna differenza dal punto di vista della padronanza in qualsiasi ambito di riferimento. Le lingue possono essere parlate a livelli diversi: in genere il bilingue si trova sempre in un punto del continuum, tra il monolingue in una e nell’altra lingua e il bilingue perfettamente bilanciato.

 Per fare due esempi: 1) l’autore di questo articolo, da piccolo, è cresciuto nella lingua italiana, parlata dai genitori e a scuola, ma sentendo anche il dialetto milanese parlato dai nonni e, visto che le vacanze erano spesso in Francia o Svizzera, capendo senza problemi anche il francese (si tratta, come si vede, di una situazione di trilinguismo passivo, con evidenti differenze dal punto di vista della padronanza delle diverse lingue, più o meno attive, estese a più o meno ambiti specifici, per esempio, il dialetto riguardava quasi esclusivamente il linguaggio familiare); 2) la figlia dell’autore di questo articolo, di cinque anni, cresce come bilingue italiano-tedesco: in famiglia il padre parla italiano, la madre tedesco, i nonni italiani italiano, i Großeltern tedeschi tedesco, con alternanza delle diverse lingue a seconda dei contesti, cioè, all’asilo italiano, durante il gruppo di gioco in tedesco l’altra lingua. Il processo di acquisizione è in fieri, e presenta alti e bassi, dimenticanze e tentativi di riattivazione dell’una o dell’altra lingua, difficoltà di traduzione, falsi amici, prestiti, interferenze, dominanza dell’una o dell’altra lingua a seconda del contesto e del periodo. Frustrazioni, con la bambina che si lamenta di non ricordare una parola o, subito dopo l’estate passata in Germania, di non saper parlare italiano.

  Ebbene, potremmo, in seguito, voler scegliere una scuola bilingue, per esempio la Scuola germanica di Milano, ovviamente, avendo a disposizione settemila euro all’anno a tal fine (cosa che, con uno stipendio che basta a malapena per pagare l’affitto… non è del tutto verosimile). Oppure, la scuola francese, quella inglese, quella svizzera. Tutte scuole private. Perché non ci pensa anche la scuola pubblica?

 Ecco allora la prima proposta per la “buona scuola”. Abbiamo tantissimi alunni che hanno una storia familiare legata al fenomeno dell’immigrazione, dall’arabo al castigliano, dal rumeno al cinese, dal russo all’inglese, dal portoghese al… (aggiungete la lingua che volete). Pensiamo dunque a come organizzare scuole bilingui, che li aiutino nell’apprendimento dell’italiano (integrazione) e anche in quello delle loro lingue familiari, anche perché, come sottolineano più studi a questo dedicati, interrompere la crescita cognitiva nella propria lingua materna potrebbe avere conseguenze negative sullo sviluppo delle abilità e delle competenze linguistiche anche nella lingua italiana. E di solito è proprio così: il fenomeno dell’immigrazione e della emigrazione non è certo una novità, così come non lo sono i problemi dei figli degli immigrati, siano essi italiani all’estero o stranieri in Italia.

Ma, più in generale, potrebbe aiutare tutti gli studenti ad apprendere, come si deve, le lingue straniere (almeno un paio): tramite l’uso. Si seguirebbe così l’obiettivo dell’Unesco: « Incoraggiare la diversità linguistica – pur rispettando la madrelingua – a tutti i livelli di istruzione, ovunque possibile, e incoraggiare l’apprendimento di diverse lingue a partire dall’infanzia» (Dichiarazione universale sulla differenza culturale del 2002).

Ogni volta che lo proponiamo a qualche collega, la risposta è, immancabilmente: utopia. A parte il fatto che, se anche non realizzassimo la perfezione, comunque miglioreremmo sicuramente le nostre competenze, aggiungiamo, molto semplicemente, che tali utopie esistono davvero. E ne diamo alcuni esempi, oltre a qualche esempio di buone pratiche, che permettono a un bambino o a un adolescente di acquisire nuove lingue, di usarle, e di mantenere e migliorare la padronanza di quelle che già conosce.

 Se pensiamo per contrasto all’insegnamento tradizionale delle lingue (incluse quelle classiche) nel Belpaese, ci rendiamo conto di quali ne siano i principali difetti. Nella maggior parte dei casi, l’apprendimento è formale (grammaticale e letterario), cioè, la lingua è una materia come le altre, con un suo orario settimanale, mentre solo raramente viene usata come strumento di comunicazione o come lingua veicolare per l’insegnamento di altre discipline.

Se si hanno, poi, classi numerosissime, come quelle italiane, e solo poche ore settimanali, in risultati non possono essere eccezionali. Al massimo si avrà, alla fine del percorso, qualche conoscenza della lingua studiata, ma se non è inserita in un contesto comunicativo resta come addormentata.

 Un’eccezione virtuosa è rappresentata dal progetto Esabac (acronimo derivante da Esame di Stato e Baccalaureat), percorso di studi italiano e francese nel quale, oltre all’insegnamento della rispettiva lingua straniera (italiano per i francesi, francese per gli italiani), si prevede l’insegnamento curricolare della storia nella rispettiva lingua straniera per due ore all’anno nel triennio conclusivo degli studi secondari superiori (per maggiori informazioni vedi qui).  Ne esiste una versione franco-tedesca (Abibac), che ha anche portato alla realizzazione di un libro di testo condiviso da parte di docenti francesi e tedeschi, e una spagnola, il Bachibac. Inoltre, dall’anno scolastico 2014/15 nella scuola secondaria superiore italiana è obbligatorio tenere una disciplina in lingua veicolare diversa dall’italiano, secondo il modello CLIL (acronimo di Content and Language Integrated Learning).

 Il vero problema, comunque, è che si crede che se un bambino o un adolescente inizia a frequentare una lingua conoscendone già un’altra (di solito quella di minoranza), diventi più facilmente bilingue. Sebbene ciò talvolta accada quasi spontaneamente, il rischio è che le conoscenze della madrelingua restino molto limitate, senza un percorso pedagogico mirato. Il risultato è che gli studenti restano indietro, vengono inseriti in classi con studenti più piccoli di loro (per esempio, un ventenne in seconda liceo) e sono poco sollecitati dal punto di vista cognitivo: non riescono a esprimersi, a manifestare la loro intelligenza nella lingua in cui sono istruiti e nessuno capisce la loro lingua materna. I casi di fallimento scolastico sono all’ordine del giorno (vedi qui). La terapia d’urto è per lo più un fallimento, sia per il lacunoso apprendimento della lingua locale (gli insegnanti come me lo sperimentano quotidianamente, e faticano a trovare dei rimedi, nonostante i numerosi corsi di italiano per stranieri che organizziamo con i fondi del Ministero), sia per l’eventuale perdita della lingua materna, a meno che le famiglie stesse non si preoccupino di intervenire in vario modo (per esempio con tate, corsi pomeridiani o nel fine settimana, vacanze nel Paese d’origine, incontri con compaesani).

 L’apprendimento di una lingua di minoranza nei primi anni di scuola comporta due tipi di conseguenze positive: benefici di carattere sociale, culturale e psicologico; facilitazione nell’acquisizione della seconda lingua (facendo leva sul trasferimento delle abilità da una lingua all’altra). Tendenzialmente, però, esiste un periodo, quello adolescenziale, oltre il quale questi vantaggi non ci sono più. Dopo, insomma, è troppo tardi (la linguista Lily Wong Fillmore si è occupata di casi di fallimento di questo tipo riguardanti immigrati di lingua madre spagnola nel mondo statunitense).

 In realtà, nel mondo esistono numerosi progetti di successo, dai quali potremmo apprendere, se lo volessimo.

Il primo esempio di innovazione didattica risale addirittura agli anni sessanta del secolo scorso. Nella cittadina canadese di St. Lambert, in Quebec, alcuni genitori del Canada inglese, residenti nel piccolo centro a maggioranza francofona, insoddisfatti del metodo tradizionale di insegnamento della lingua francese, con l’aiuto di pedagoghi e psicologi inventarono il “programma di immersione”: dalla scuola materna, le lezioni degli studenti anglofoni sarebbero state tenute in francese da insegnanti madrelingua. In prima elementare, i bambini avrebbero imparato a leggere e scrivere in francese, solo in seconda, avrebbero iniziato a seguire delle lezioni in inglese, ma in media un’ora al giorno. L’inglese sarebbe stato introdotto progressivamente nelle classi successive, fino a raggiungere più di metà dell’orario a partire dalla prima media.

Con un programma di immersione è stato persino possibile recuperare lingue considerate quasi scomparse, come la lingua degli indiani navajo, a Fort Defiance, in Arizona, ottenendo risultati positivi anche nell’apprendimento dell’inglese e della matematica e nella ricostruzione di una identità distrutta da secoli di assimilazione forzata.

Sempre negli Stati Uniti, esiste la Amigos School di Cambridge, nel Massachusetts, scuola pubblica (sì, pubblica) che si rivolge a studenti di madrelingua inglese e a studenti di madrelingua spagnola. Si cerca, nelle aule, un equilibrio tra i due gruppi, e gli studenti cambiano lingua a seconda dell’aula, con proporzioni variabili secondo gli anni di corso, le materie e i progetti svolti.

Il quarto esempio che prenderemo in considerazione è quello del programma bilingue (triennale) di una cittadina svizzera: Bienne/Biel (francese e tedesca già nel nome). In classi composte da studenti di madrelingua francese e tedesca, con una proporzione intorno al 50%, le lezioni sono tenute nella lingua madre degli insegnanti (francese o tedesco) e ogni materia viene insegnata in quella stessa lingua per tutta la durata del triennio.

Per metà dell’orario si usa una lingua, poi si passa all’altra. Gli studenti si dividono solo per le lezioni di letteratura (ciascuno nella sua lingua materna). Gli stessi insegnanti conoscono entrambe le lingue e possono all’occorrenza aiutare gli studenti di madrelingua diversi. Nella valutazione si evita poi di penalizzare gli errori di lingua. Non solo, gli studenti di madrelingua sono invitati ad aiutare i compagni di classe che non lo sono.

Un ultimo esempio, che è appena partito, potrebbe essere rappresentato dalla scuola bilingue italo-tedesca di Monaco di Baviera, finanziata dalla vicina Scuola superiore per interpreti e traduttori, dall’Italia e dal ministro dell’Istruzione bavarese. Vedremo se avrà successo. Il progetto è senz’altro interessante.

Sì, il lettore potrebbe pensare che si tratti di eccezioni, e avrebbe ragione, anche se tali eccezioni sono sempre più numerose. I bilingui, però, non sono più delle eccezioni o delle rarità, e hanno bisogno di aiuto da parte della scuola. Tra l’altro, questo aiuto sarebbe vantaggioso per tutti, anche per chi appartiene alla cultura di maggioranza. È ora che la buona scuola se ne occupi.

 

Articolo scritto da Techne Maieutike con la consulenza di Poliglottia.

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