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La didattica al tempo dell’epidemia e le virtù cardinali
Quando questa triste stagione è cominciata, circolavano insistentemente (e continuano a circolare) inviti a cogliere le giornate di reclusione come un’occasione per sperimentare stili e tempi di vita inconsueti; inviti a valorizzare la reclusione forzata per leggere un libro, ascoltare la musica, giocare in famiglia… Mi tornavano in mente le parole provocatorie di Alex Langer “lentius, profundius, suavius” (più lentamente, più profondamente, più dolcemente, richiamate recentemente in una bellissima riflessione di Gabriella Falcicchio: https://www.edizionilameridiana.it/la-lezione-del-coronavirus/). Provocatorie perché volevano rovesciare non tanto il motto delle Olimpiadi “Citius! Altius! Fortius!” (più velocemente, più in alto, più forte) quanto l’applicazione di fatto di tale motto a tutti gli aspetti della vita nell’Occidente capitalista.
E pensavo che la stagione #iorestoacasa avrebbe potuto farci applicare le tre parole di Langer anche all’esperienza delle telecomunicazioni e farci, così, scoprire aspetti di loro che non avevamo sufficientemente esplorato o praticato. Così è stato, certamente. Abbiamo potuto sperimentare il senso più prezioso e primigenio delle tecnologie della comunicazione: tecnologie a servizio della comunicazione, cioè del ‘cum munus’, della condivisione, della creazione di rapporti… Benedette davvero queste tecnologie che hanno salvato il nostro “essere in relazione”!!…
Ma è durato poco. Presto in molti abbiamo cominciato a riempire con gli scambi sui vari social il “vuoto” di relazioni in presenza a cui siamo stati condannati. Si è verificata (e continua tanto più a verificarsi nelle giornate festive della Settimana Santa) una vera e propria ipertrofia comunicativa – comprensibile, per carità: non è mia intenzione stigmatizzarla; ma ben lontana da quelle tra dolcissime parole di Langer: sicuramente non “più lenta”, né “più profonda” (quanti messaggi fatti circuitare freneticamente senza soppesarli più di tanto); forse “più dolce”, ma non ne sono tanto sicuro…
Poi è cominciato il telelavoro e, per gli insegnanti, la teledidattica o didattica a distanza (subito trasformata nell’ennesimo acronimo scolastichese: DaD). E allora davvero quelle tre parole sono nuovamente sprofondate nell’archivio dei buoni propositi…
Per consolarci, potremo dire che si tratta di una situazione provvisoria, emergenziale come tutto il resto; e che prima o poi si tornerà alla normalità. Giusto. Il mio timore è “l’ubriacatura” e l’assuefazione a certe modalità che stanno diventando “normalità nell’emergenza”. Per questo sin d’ora è opportuno fermarsi a riflettere e fissare determinati punti…
È stato detto che la situazione d’emergenza ha provocato/stimolato la creatività didattica degli insegnanti (“di necessità virtù”); è stato detto che finalmente gli insegnanti italiani sono stati costretti a scoprire e sperimentare le potenzialità didattiche delle tecnologie della comunicazione (e formazione). Giusto. È stato detto che la scuola non potrà più esser come prima dopo che è stato sperimentato tutto questo ben di Dio di innovazione didattica. Andiamoci cauti…
C’è un grande desiderio di tornare alla normalità; c’è una grande “nostalgia di scuola a scuola” dopo tante giornate di “scuola senza scuola”. C’è un desiderio non solo di abbracciarci nuovamente, ma di tornare a rivederci in quelle aule a volte grigie e malmesse, con le pareti scrostate, con le cattedre sgarrupate, le sedie di altezze diverse, i banchi dondolanti, le lavagne irrimediabilmente segnate dal gesso nonostante l’impegno dei collaboratori a lavarle…eppure aule così piene di vita vera!!…
Poi, quando l’entusiasmo del ritorno alla normalità sarà calato, potremo davvero capire quanto la didattica possa finalmente essere innovata dalle risorse tecnologiche che abbiamo sperimentato nei giorni della pandemia. E allora dovremo fare esercizio di saggezza. Intanto la didattica tradizionale non è certo tutta da buttare via: per esempio, le lezioni frontali – sempre più screditate dai “venti dell’innovazione” – possono avere oggi e potranno avere domani una loro ragione d’essere. La lavagna – nera o bianca che sia – ha una sua potenzialità (per esempio: l’immediata disponibilità d’uso) che le tecnologie non potranno mai del tutto sostituire.
Quanto sta avvenendo in questi giorni non è sempre esemplare né dal punto di vista didattico, né da quello pedagogico e neanche da quello antropologico. Siamo immersi nelle telecomunicazioni dal risveglio sino a fine giornata; e a volte il fine giornata si prolunga sino all’ultimo messaggio su whatsapp. Probabilmente usciremo ingobbiti da questa overdose di comunicazioni via device minimali!… E la DaD è diventata un continuum che non conosce paletti: non esistono campanelle a sancire il termine delle lezioni perché queste si protraggono nello scambio di comunicazioni fra insegnanti ed alunni (e anche genitori) al pomeriggio, nel fine settimana… La disponibilità senza limiti delle piattaforme hanno fatto venir meno ogni senso del limite: tutta la giornata, tutte le giornate rischiano di essere considerate “lavorative”…
Questo non fa bene perché ogni esperienza lavorativa ha bisogno di essere delimitata nel tempo e non solo per ragioni di salute personale (non si vive per lavorare…): la didattica, nello specifico, ha bisogno di tempi di riflessione, di ripensamento sul proprio agire; un bisogno continuamente evocato se non proprio prescritto anche nelle indicazioni burocratiche, ma di fatto negato dalla stessa burocrazia che spesso disperde le energie e l’attenzione dei docenti in pratiche che di riflessivo hanno davvero poco. E la connessione continua non agevola la riflessione perché annulla i tempi del distacco dall’azione didattica.
Questo sicuramente dovremo evitare quando l’emergenza sarà finita; quando l’emergenza sarà finita dovremo con forza invocare e ristabilire innanzitutto il diritto alla disconnessione. Non sarà facile perché se la normale “buona educazione”, pur non essendo codificata in maniera univoca da qualche parte, è tuttavia entrata, lungo il corso di generazioni, nell’habitus della cittadinanza democratica, la “buona educazione nella cittadinanza digitale” è ben lungi dall’essere interiorizzata in quanto questa nuova cittadinanza è ancora troppo giovane per aver sedimentato un habitus condiviso di buone pratiche. Quindi, così come da sempre ci sono persone che si rendono talvolta inopportune, ancor più potranno esserci studenti (e genitori) che domani penseranno di potersi intrufolare nei tempi non lavorativi dei docenti come sta avvenendo adesso, “nell’emergenza”…
Da qualche tempo vado riflettendo circa l’opportunità di applicare all’esperienza della cittadinanza digitale l’antico insegnamento delle virtù cardinali, attinto da quello straordinario, secolare patrimonio che è il magistero della Chiesa cattolica (non sono stato certo il primo a farlo: si veda Rivoltella, Le virtù del digitale. Per un’etica dei media, Morcelliana, 2015). Al netto delle connotazioni di fede, credo davvero che l’applicazione ragionata delle virtù cardinali al campo della comunicazione digitale possa offrire indicazioni interessanti nella prospettiva di una “buona educazione nella cittadinanza digitale”. E credo che l’esperienza in corso in questi giorni possa offrire più di uno spunto di riflessione.
“Le virtù umane sono disposizioni stabili dell’intelligenza e della volontà, che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e indirizzano la nostra condotta in conformità alla ragione e alla fede.”
Così recita il “Catechismo della Chiesa cattolica”, individuando quattro virtù come “cardinali”: la PRUDENZA, la GIUSTIZIA, la FORTEZZA e la TEMPERANZA. Cominciamo dall’ultima: la Temperanza è probabilmente quella che nel campo della comunicazione digitale può essere assimilata alla capacità di disconnettersi. Si è cittadini digitali temperanti se si usano le tecnologie della comunicazione con equilibrio, senza lasciarsi invischiare nella loro promessa di connessione globale e infinita. In termini pratici: terminato il tempo che ho deciso di dedicare al lavoro, “spengo” quel tipo di collegamento e resisto al richiamo di andare a vedere se qualche studente, genitore, collega ha postato qualche messaggio…
L’esemplificazione appena fatta allaccia la virtù della temperanza a quella della Fortezza come capacità di resistere – per esempio alla tentazione di un uso compulsivo e sfrenato delle tecnologie della comunicazione. Ma anche capacità di r-esistere al loro interno per quella che è la nostra vera personalità, improntata a determinati principi, evitando il rischio che, nascosti dietro la vetrina opaca del mezzo, veniamo meno al nostro stile e alla nostra “buona educazione” agita nella dimensione reale. Quanti episodi di comunicazioni inopportune, inaspettate, sgradevoli abbiamo vissuto nella nostra esperienza di cittadini digitali?…
Una regola per sfuggire a questo rischio di comunicazioni inopportune ci viene suggerita dalla virtù della Giustizia in base alla quale si deve dare all’altro ciò che gli è dovuto. Cosa significa Giustizia nella città digitale? Innanzitutto dare a ogni interlocutore la giusta attenzione, il giusto ascolto. Ciò potrebbe significare, tra le altre cose, che, nella frenesia di uno scambio di comunicazioni, cerco di “restare sul pezzo”, sui contenuti, non mi lascio “distrarre” dal tono con cui certi contenuti possono essere stati espressi: è facile, soprattutto nelle comunicazioni asincroniche, che il “tono” di certi messaggi possa essere travisato. Quanti malumori, fraintendimenti sono nati durante le nostre conversazioni sui social?…
Insomma, ci vuole Prudenza, cioè capacità di discernere: quale mezzo sia più opportuno utilizzare per quel genere di comunicazione (una regola fondamentale nella comunicazione didattica!); ma anche quale “tono” avere nella mia comunicazione. Ma anche – forse ancor di più – discernere il vero nella miriade di messaggi che ricevo quotidianamente, prima di rimetterli in circolo, contribuendo così ad aumentare l’inondazione comunicativa…
Ognuno potrà continuare questo esercizio di applicazione delle virtù alla comunicazione digitale – e in particolare a quella agita in campo didattico. Cerchiamo di fare in modo che questo tempo “strano” (della pandemia) ci faccia crescere davvero come professionisti della didattica e ci insegni ad essere dei comunic-attori temperanti, forti, giusti, prudenti. “Lentius, profundius, suavius.”
“Dobbiamo recuperare un certo senso di lentezza e di calma. Questo richiede tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare.”
(Papa Francesco, Messaggio per la 48^ Giornata della Comunicazioni sociali, 2014)
Lucio D’Abbicco
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