Scuola

La “Buona Scuola”: un bilancio, alcune riflessioni

1 Agosto 2017

No. Non si poteva fare peggio. La “Buona Scuola” ha destrutturato il senso e il valore della preziosa relazione tra insegnamento e apprendimento, snaturando entrambi i concetti.

Vari e irrimediabili sono i colpi assestati alla funzione docente e, indirettamente, agli studenti. Esaminiamone alcuni.

 

a. I “potenziatori” ovvero i docenti dell’organico dell’autonomia sono insegnanti?

Il massiccio blocco di assunzioni decretato dalla riforma Giannini e attuato in via definitiva dall’attuale ministra Fredeli, si è trasformato in un atto di vilipendio nei confronti di quanti hanno creduto di essere regolarizzati in servizio come docenti e, invece, hanno scoperto di essere demansionati a meri “tappabuchi” destinati a coprire le eventuali ore di supplenza in orario curriculare. Nelle scuole in cui, invece, con zelo, si è cercato di dare un senso alla legge 107/2015 i dirigenti hanno impiegato i potenziatori in orario pomeridiano, organizzando progetti extracurriculari e perciò solo facoltativi – e pertanto non sempre frequentati dagli alunni –  o, comunque, in effetti rivolti ad un numero esiguo di volenterosi discenti.

Ebbene questo accade a scuola oggi. Quindi i potenziatori assunti con contratto triennale rinnovabile a discrezione dei dirigenti scolastici non sono propriamente definibili docenti: non hanno le loro classi, non hanno una continuità didattica, lavorano a progetto, sono dei co.co.co eufemisticamente ribattezzati con enfasi “personale dell’organico dell’autonomia”.

 

b. La formazione obbligatoria forma?
Le recenti indicazioni sulla formazione obbligatoria, strutturale e permanente del personale docente, riassunta in 88 pagine colorate e pubblicate dal MIUR a firma “La Buona scuola” – senza però la precisazione dei nomi e dei cognomi di quanti hanno elaborato tali linee guida –  sottolineano l’improrogabile necessità di fare aggiornare i docenti italiani e di farli tornare “sui banchi di scuola”, come affermò a suo tempo la ministra Giannini.

A dire il vero, chi insegna nello stesso tempo impara e  il modello del docente che parla ex cathedra è stato ampiamente superato, come la recente pedagogia dimostra. Se, poi, entriamo nel merito del concetto di “formazione”, così come è delineato nel documento diffuso dal MIUR, si percepisce qualcosa di davvero stridente con l’idea stessa di scuola. L’aspetto principale che viene sottolineato nel testo ministeriale è l’allineamento delle metodologie agli imprecisati standard europei con conseguente celebrazione del tecnicismo didattico affidato al taumaturgico potere delle tecnologie digitali. Ne deriva, quindi, la palese apologia del “coding” e dello stimolo alla creatività che scaturirebbe dal pensiero computazionale. Non mancano, inoltre, nel testo ministeriale, espressioni e termini mutuati dal lessico economico e specifico del marketing: capitale umano e professionale invece di insegnanti; formazione come investimento; la priorità indiscussa è la crescita del paese, il suo sviluppo economico. E sull’altare dell’economia, il cui volano diventa, quindi, la scuola, si sacrifica il senso puro della ricerca, che viene promossa e incentivata solo se si trasforma in “azione”. Si tratta di un prometeismo dal vago sapore faustiano cha ha dell’incendiario: dialogo e relazioni umane vengono abbattute come residui di un passato da dimenticare.

La scuola sta correndo su un tapis roulant, è attraversata da un’ansia di cambiamento: non importa se il cambiamento è un peggioramento e lascia dietro di sé macerie, quello che conta è il restyling.

C’è di più. Per ottemperare al dovere della formazione – obbligatoria in tre ambiti ritenuti imprescindibili per la modernizzazione della scuola italiana: didattica inclusiva, inglese, informatica – i docenti sono costretti ad abbandonare l’approfondimento e lo studio delle loro discipline. Per dedicarsi a diventare bravi informatici o esperti in lingua straniera, anche se, per esempio, insegnano latino e italiano, non potranno seguire corsi di aggiornamento relativi alla materia che insegnano, preoccupati dal fatto che, senza le certificazioni attestanti l’avvenuta formazione negli ambiti obbligatori, potrebbero perdere il loro posto o essere trasferiti in una delle scuole della rete, anche in quelle più distanti dalla loro residenza.

 

c. La legge 107 premia il merito?
Le capacità didattiche di un docente – è noto – non sono valutabili oggettivamente e perciò il “merito” didattico non è quantificabile. Molti dirigenti, quindi, hanno superato questa obiettiva difficoltà premiando con il bonus quanti si sono impegnati – spesso al di là del loro orario lavorativo – in attività extradidattiche, in una scuola “ombra”, in effetti “parascolastica”. Nulla quaestio, ma non lo si chiami “merito”. Si tratta di straordinario, che va retribuito, certamente. Ma non è un merito “fare altro”, piuttosto che educare. Gli insegnanti nascono per insegnare. Se fanno altro, non insegnano. Vanno pagati per il loro “fare altro”, ma non per il loro “merito”. È una questione di uso appropriato della lingua italiana.

Assodato che la legge 107, quindi, non premia il merito, ma retribuisce le ore di lavoro straordinario svolte da quanti preferiscono uno slittamento dalla docenza alla burocrazia, resta da chiarire che cosa sia questo sottobosco che si nutre a carico dei contribuenti italiani, che è sostenuto dal MIUR, cioè dal governo, e che costituisce una dimensione parascolastica che la 107 alimenta e incrementa.

In tempi non sospetti Galli della Loggia scrisse: non sapete cosa sono i POF? Male: sono i “piani dell’offerta formativa”, che ogni istituto deve approntare per rendere la scuola “moderna” e “aperta all’esterno”, in attuazione della visione del mondo dei pedagogisti postsessantotteschi che da decenni impazzano al Ministero. Cioè i Pof e i “famigerati” progetti sono i responsabili di quella specie di scuola ombra “aggiornata” e “divertente” – fatta di corsi di arabo, lezioni di nuoto, conferenze sugli Ogm o sul multiculturalismo, settimane bianche, proiezioni di film, avvio allo studio della chitarra – che è cresciuta a dismisura accanto alla polverosa scuola ufficiale, mangiandosene anche le ore di lezione. E soprattutto delegittimandola alla radice: libri? professori? ma via! (E. Galli Della Loggia, “Abolire i POF”, in “Calendario”, rubrica del “Corriere della Sera”, 29.03.2007)

Certo, l’articolo di Galli Della Loggia non è aggiornato: i “pof” sono diventati “ptof”, la scuola “divertente” abolisce il latino o lo fa imparare a fumetti, e visto che è moderna svolge le prove INVALSI che sono più oggettive dei temi!

 

d. Perché il Miur impone il principio della valutazione degli insegnanti?
Certo, lo stereotipo del funzionario pubblico è quello del parassita, l’insegnante, poi, nell’immaginario collettivo è quello che ha tre mesi di ferie e vive a carico della nazione che paga le tasse per mantenerlo!

Il particolare disfunzionale dei pochi inadempienti è stato espressionisticamente elevato a modello standard di un’intera categoria e la legge 107 ha tradotto l’odio sociale verso una classe docente – ritenuta “fannullona perché, tanto, ha lo stipendio sicuro a fine mese!” – in una normativa fondata sul principio della discriminazione sociale.

Gli insegnanti vanno valutati. Come? Per esempio, in base ai test INVALSI, sui cui esiti, però, come è noto, incidono una serie di variabili non certo riconducibili alla sola qualità dei processi di insegnamento.

Il principio della valutazione di una categoria professionale ha una sola spiegazione: creare spaccature fra scuole, subordinare ancora una volta la scuola a logiche a lei estranee, strumentalizzare i docenti, mero medium per il conseguimento di fondi da assegnare alle scuole in base agli esiti dei test INVALSI, creare scuole di eccellenza e scuole di serie B. Secondo i principi della legge 107, quale dirigente chiamerà mai l’insegnante “marchiato” da esiti negativi alle prove INVALSI? Poco importa se a quel docente è stata assegnata una classe-ghetto di un istituto professionale di un paese dell’entroterra del profondo Sud, che non potrà, per forza di cose, raggiungere gli stessi risultati di un ginnasio metropolitano, di una Milano dall’ineguagliabile efficientismo di matrice asburgica. Nessuno considera, però, che i test INVALSI sono uguali ovunque, omologano situazioni geoculturali, non tengono conto delle differenze.

E il docente che ha avuto una valutazione negativa, che non ha ricevuto l’investitura del bonus premiale, perché mai dovrebbe ancora circolare nel mondo della scuola?

I risultati dei test INVALSI e il conseguimento dei bonus premiali stanno diventando i banchi di prova della qualità professionale dei docenti italiani.

L’altra faccia della valutazione è la discriminazione. Il docente non premiato, l’espulso, quello che vaga nell’organico di rete, quello senza collocazione, lo scarto, il diverso rispetto a un sistema che non ha regole oggettive – perché non c’è nulla di oggettivo nelle prove INVALSI o nell’attribuzione dei bonus – per quanto tempo vagherà nel vuoto, in attesa di chiamate che non verranno… Decadrà dal servizio? Questo è il senso ultimo della valutazione. E tutta la responsabilità  ricade sui presidi: loro assumono, loro premiano, loro legittimamente demansionano, loro allontanano.

Insomma, bisognava gratificare l’opinione pubblica che voleva e vuole vedere gli insegnanti equiparati agli altri lavoratori dipendenti. E del resto la chiamata diretta dei dirigenti scolastici, l’ampia discrezionalità dei loro poteri nella selezione del personale da assumere, la facoltà di poter allontanare dalla scuola insegnanti ritenuti non più funzionali al piano dell’offerta formativa, al di là di vincoli legati all’anzianità di servizio o ai titoli culturali, sembrano voler trasferire la logica del jobs act al mondo della scuola, trasformando i dirigenti in manager e i docenti in dipendenti.

Comunque, la scuola continua a funzionare…nonostante la “Buona Scuola”! Passione, cultura, coraggio sono le parole d’ordine di molti, numerosissimi, insegnanti che credono nel senso profondo del loro lavoro.

 

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