Scuola

La “Buona Scuola” resta pessima anche senza referendum

22 Ottobre 2016

Per dare un’idea di quanto accade, è necessario fare il punto della situazione partendo dalla famosa questione della “deportazione degli insegnanti”. La norma di legge (legge 107/2015) prevedeva che i neoassunti sarebbero stati assunti e poi inseriti d’ufficio in una mobilità nazionale con evidente spostamento in aree lontane dalla residenza dell’interessato, il quale avrebbe dovuto attendere tre anni prima di chiedere il trasferimento.

Sulla base di tale legge, se molti insegnanti hanno scelto di fare domanda di assunzione (circa 120mila), altri 45mila sono impossibilitati a lasciare famiglie e non hanno presentato domanda attendendo l’assunzione con le precedenti regole normative anche se probabilmente con una certa incertezza. Ad aprile del 2016 la norma di legge è stata modificata per agevolare i neo-ammessi in ruolo senza, però, riaprire i termini per far fare la domanda di assunzione ai 45mila docenti precari che non hanno presentato domanda in prima istanza. Questi ultimi, quindi, non solo non hanno avuto l’assunzione, ma adesso rischiano fortemente anche di non avere incarichi di lavoro annuali perché “scavalcati” dai neo-immessi in ruolo che vengono assegnati provvisoriamente nelle province di residenza anziché, come previsto in origine, in province lontane da questa.

Certo nella scuola che fa delle pari opportunità il suo fondamento, questo sarebbe una contraddizione in termini, ma in realtà la scuola assume sempre più le sembianze di una roulette russa dove il fair play non è certo contemplato. E di roulette russa sembra opportuno parlare se si pensa al sistema dell’algoritmo che ha generato non pochi errori, mandando migliaia di insegnanti vincitori di un concorso in regioni che non avevano neppure indicato nella scelta delle cattedre.

Si sono verificati anche casi di insegnanti a cui vengono assegnate cattedre non esistenti, come è successo a Barbara Floridia che, recatasi al Liceo Medi di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), come in un gioco di prestigio scopre che la sua cattedra non esiste. Inoltre, nella scuola che ispirandosi a Don Milani dovrebbe rendere il principio di differenza imprescindibile da quello di equità, si assicura meno proprio ai più bisognosi. Accade, infatti, che i portatori di handicap spesso sono a scuola senza poter avvalersi dell’insegnante di sostegno dopo ormai un mese dall’avvio dell’anno scolastico.

Quanto accade alla Montessori di viale Adriatico, a Montesacro, dove gli studenti disabili devono lasciare la classe due ore prima poiché senza assistenti educativi culturali non possono essere garantite le condizioni minime per la loro presenza in aula, è solo la punta dell’iceberg.
Un caso simile si è verificato all’istituto tecnico Salvemini di Casal sul Reno, a Bologna, dove la mancata copertura di 30 posti ha portato il preside a chiedere alle famiglie di concordare giorni e orari in cui tenere a turno i ragazzi disabili a casa.

I docenti di sostegno, infatti, mancano sia per i tagli effettuati dalla riforma, sia in virtù dell’assegnazione provvisoria con cui molti docenti sono riusciti a ritornare nella propria regione d’origine. Per molti di questi docenti ricoprire posti di sostegno nella provincia da cui provengono, anche in mancanza del titolo di specializzazione, è stata una scelta strumentale, una scialuppa di salvataggi che fa naufragare il diritto degli alunni con disabilità di avere insegnanti competenti.

In generale, ad oltre un mese dall’inizio dell’anno scolastico il problema “supplentite” non è stato risolto affatto, anzi le procedure di assegnazione delle cattedre e i ritardi delle nomine su posti vacanti si sono allungati più che in passato e molte cattedre risultano ancora scoperte. Molte scuole milanesi, così come in Veneto, hanno visto un pesante esodo di insegnanti che rientrano in Campania e in Sicilia, transfughi donne con bambini, alcuni non hanno mai preso servizio a scuola, altri ancora hanno meritato l’appellativo di “insegnanti sospesi”, quelli con la valigia in mano. Buchi negli organici, supplenti dei supplenti già pronti a lasciare le classi in beffa al principio di continuità. Una situazione comune a molti uffici scolastici territoriali che lamentano gli effetti caotici e deleteri di una legge disastrosa, scritta da chi non conosce i delicati equilibri che governano la scuola e che, superando considerazioni di parte politica, unisce in una protesta unanime insegnanti, dirigenti, genitori e amministrazioni locali.

Altro quesito contemplato dal referendum riguardava la questione dell’alternanza scuola-lavoro (si chiedeva l’abrogazione dell’obbligo di minimo 200-400 ore di alternanza scuola-lavoro), che è percepita come un’attività formativa ancora lontana da risultati apprezzabili. In parte prevista negli istituti tecnici già prima che la legge ne prescrivesse l’obbligo, viene vista da molti studenti, soprattutto frequentanti i licei che per loro fisionomia non prevedono sbocchi lavorativi, solo un’incombenza che amplifica il divario tra scuola e mondo del lavoro.

Nonostante il ministro Giannini abbia rivendicato, dati alla mano, la grande partecipazione numerica degli studenti ad attività di alternanza, ha dimenticato di specificare che essi sono costretti a parteciparvi perché è un requisito essenziale per ottenere crediti utili per l’esame di maturità. Ha dimenticato di citare il caso degli imprenditori arrestati per aver sfruttato gli studenti e ovviamente anche di dire che dalla rilevazione del monitoraggio sull’esperienza degli studenti coinvolti in tali attività, si è colto il malumore degli stessi che si sentono trattati come manodopera a basso costo. L’alternanza per molti insegna il disvalore attribuito al lavoro, insegna lo sfruttamento, la precarietà, l’assenza di diritti. Nelle sue narrazioni, il ministro Giannini non ricorda troppe cose, ma, come sostiene Kundera, il ricordo è per sua natura inaffidabile, soprattutto quando la sua realtà viene strumentalizzata dalla propaganda politica.

Per quanto riguarda la questione del bonus premiale, ormai è un fatto su cui è sceso il silenzio. Forse adottando il pensiero di Erasmo secondo cui “è più onesto essere nudi che indossare abiti trasparenti”, la scuola in barba alla trasparenza si rende sempre più opaca. Poche, infatti, sono quelle in cui si sono resi noti i nominativi dei docenti meritevoli, né ovviamente l’ammontare del premio. Più sconcertante, ancora, è il fatto che molte scuole non hanno neppure pubblicato i criteri da utilizzare per la distribuzione del fondo premiale. Come si era previsto, oscuramente gestito, il bonus è diventato un malus, ha generato malumori, tensioni e divisioni.

Considerando tutto ciò, invece di esultare per il fatto che non ci siano firme sufficienti per promuovere il referendum sulla buona scuola, il Partito democratico farebbe meglio a concentrarsi sui suoi fallimenti. Basta ascoltare i racconti di quanti ogni giorno, soprattutto alunni e insegnanti, pagano sulla propria pelle il disastro di una riforma deforme. Il fatto che non si siano raggiunte le firme necessarie non significa che la riforma sia piaciuta e che funzioni, non tutti possono schierare Coldiretti per raccogliere le firme come si è fatto con il referendum costituzionale. Del resto sin dall’inizio quella sulla buona scuola è stata una legge che non ha trovato consensi unanimi neppure nel PD, tanto da costringere il Governo a mettere la fiducia anche su questo provvedimento.

Quale fiducia insegnare, allora, agli alunni se i primi a essere sfiduciati sono gli stessi insegnanti che schizofrenicamente lavorano in un luogo deputato all’insegnamento dell’esercizio del pensiero critico e che, invece, devono comportarsi come tanti burattini a cui resta la sola presa d’atto, spesso acritica, di ciò che sta accadendo. Soprattutto, cosa insegnare.

Sicuramente con la “Buona Scuola”, si insegna a mettere una parte contro l’altra adottando la logica del mors tua vita mea, si insegna frammentazione, bandendo lo spirito di coesione in un luogo che ha sempre fatto dell’inclusione e dello spirito di comunità i suoi pilastri fondamentali. Si insegna, ancora, alle nuove generazioni a piegarsi alle esigenze delle aziende fornendo un’istruzione dequalificata per garantire un futuro meno stabile in un mondo del lavoro sempre più precario. Più che una Buona Scuola, è una scuola buona alla realizzazione dello Jobs act. Fare così male è stato un’impresa.

 

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