Scuola

Io, animatrice digitale

21 Gennaio 2016

Ebbene, sì. Sono una degli ottomila e passa animatori digitali, uno per scuola o quasi, che secondo le pie intenzioni del PNSD (Piano Nazionale della Scuola Digitale), parte integrante della riforma, dovrebbero “rianimare” le dubbiose sorti digitali della scuola italiana.  Per la precisione l’ azione #28 del PNSD (figo l’hashtag, vero?) prevede l’istituzione di questa enigmatica figura. Vero è che già il nome,  automaticamente evocativo di scenari da villaggio vacanze per quanto hi tech (per di più la maliziosa storpiatura dell’aggettivo, storpiatura già in circolazione da un po’,  suggerisce interpretazioni assai più hot), non è forse indovinatissimo: a meno che la scelta non sia stata voluta per suggerire un’idea di scuola frizzante, vivace, accattivante … appunto come un Club Med. Ma in quel caso io con i miei trent’anni suonati di servizio non sarei stata la scelta migliore.

Comunque sia, eccomi qui, animatrice digitale per amore o per forza. Nel corso degli anni, complici il blog e la mia indomabile curiosità che mi ha spinto a vagabondare qua e là in Rete, nella mia scuola mi sono fatta la fama di “umanista tecnologica”. Ho passato tutte le fasi: dall’entusiasmo acritico e un po’ ingenuo di chi per la prima volta, da “immigrata digitale”, come si suol dire, si affacciava nel fantastico mondo del Web, per arrivare alla perplessità pensosa di una che, tanto per citare il mio amato Guccini, ha visto “geni e maghi uscire a frotte, per scomparire”.  Ho avuto la fase “Nicholas Carr” (Internet ci rende stupidi? Sì) e, sulla base della mia quotidiana frequentazione di facebook e twitter, non ho poi trovato così scandalosa l’affermazione di Umberto Eco («Internet ha dato parola a legioni di imbecilli»)  che tanto ha scosso gli italici alfieri dell’innovazione ad ogni costo.  E infine mi sono addolcita: in fondo la Rete mi ha dato e continua a darmi molto, in termini di conoscenza condivisa e di strumenti utili per il mio lavoro e la mia cultura, anche se ne vedo le ombre e i pericoli e l’idealismo ingenuo in stile Pekka Himanem (quello dell’Etica Hacker e lo Spirito dell’Età dell’Informazione) l’ho superato da un po’.

Tuttavia, quando il ruolo mi è stato proposto, ho detto “no”. E poi no, e ancora no, e nuovamente no. Salite un paio di righe sopra, in questo articolo. Che cosa ho scritto? “Internet mi ha dato e continua a darmi molto in termini di … conoscenza condivisa”. Condivisione: è questa la chiave. Ma l’animatore digitale è, per scelta e definizione, un isolato: uno che si sente toccato dallo spirito dell’innovazione e discende come il Messia per diffondere il verbo su collegi docenti riottosi e dirigenti non di rado ignari e troppo indaffarati.  E naturalmente lo fa in nome della missione, pardon, della mission ( e della vision), tanto per riciclare un certo gergo aziendalistico che peraltro gode di un certo credito dalle parti del PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa, per chi non fosse aduso agli infiniti acronimi dello scolastichese). Il lavoro è immane, ovvero come recita la circolare ministeriale consiste in:

  1. FORMAZIONE INTERNA: stimolare la formazione interna alla scuola negli ambiti del PNSD, attraverso l’organizzazione di laboratori formativi (senza essere necessariamente un formatore), favorendo l’animazione e la partecipazione di tutta la comunità scolastica alle attività formative, come ad esempio quelle organizzate attraverso gli snodiformativi;
  2. COINVOLGIMENTO DELLA COMUNITÀ SCOLASTICA: favorire la partecipazione e stimolare il protagonismo degli studenti nell’organizzazione di workshop e altre attività, anche strutturate, sui temi del PNSD, anche attraverso momenti formativi aperti alle famiglie e ad altri attori del territorio, per la realizzazione di una cultura digitale condivisa;
  3.  CREAZIONE DI SOLUZIONI INNOVATIVE: individuare soluzioni metodologiche e tecnologiche sostenibili da diffondere all’interno degli ambienti della scuola (es. uso di particolari strumenti per la didattica di cui la scuola si è dotata; la pratica di una metodologia comune; informazione su innovazioni esistenti in altre scuole; un
    laboratorio di coding per tutti gli studenti), coerenti con l’analisi dei fabbisogni della scuola stessa, anche in sinergia con attività di assistenza tecnica condotta da altre figure.

Eppure il compenso  è incerto, molto incerto, sebbene qualche collega dimostri tutto sommato un certo ottimismo (vedi, ad esempio, qui). Se andiamo a leggere quello che dicono  di noi, animatori digitali, Damien Lanfrey e Donatella Solda, gli esperti (nel senso che il loro curriculum è notevole ma poco attinente a scuola e formazione) del MIUR che hanno redatto il PNSD e ci hanno, in pratica, inventato, non è che ci rassicuriamo granché. 

In questo primo momento stiamo prendendo solo un nome, ma questo non significa che le scuole non possano formare un proprio gruppo di lavoro sul digitale […]

Istituzionalmente c’è scritto che deve essere un docente di ruolo, ma anche qui, prendiamo questa prima fase come test: poi andremo ad affrontare tutte le situazioni […]

Questa accoppiata, quel tipo di finanziamenti più i mille euro, sono un tentativo per il primo anno: poi non è detto che in futuro non investiremo qualcosa in più se vediamo che l’animatore digitale diventa importante per la scuola  (corsivi miei).

Traduco: vediamo come va, se va. E potrebbe anche non andare. Come strategia (la chiamerei strategia del  “non è detto che”) non c’è male.

Ma alla fine ho accettato. Eh sì, ho accettato.

Ho accettato, pur sapendo che verrò pagata comunque poco per quello che farò (e tenete conto che comunque resterò in classe e fra un’animazione/rianimazione digitale e l’altra continuerò ad insegnare Dante, Orazio, la poesia del Novecento e la Storia Romana) e forse non sarò pagata affatto.

Ho accettato, pur nella consapevolezza che la mia idea di tecnologia applicata alla didattica non collima necessariamente con la tecnolatria che sembra ispirare il PNSD.

Ho accettato, pur temendo che l’ambiziosissimo PNSD si riveli l’ennesima patacca rifilata alla sofferente scuola italiana.

Ho accettato,  pur conscia che non si trattava di un onore ma di un onere, ovvero nessun altro voleva la patata bollente e su piazza ero rimasta solo io, la prof blogger che si diverte in classe con la Rete e lo racconta in sala insegnanti, l’unica disponibile ad accollarsi il peso di cotanto incarico.

Ho accettato, pur fiutando la fregatura.

Intanto ci sono alcune cose che ho cominciato a fare nella mia scuola, e non da sola, ma insieme ad altri. No, non un laboratorio di coding. E per il momento accantoniamo  flipped classroom, workshop, stakeholders, BYOD, research unit, e tutto l’armamentario anglofono che zavorra la retorica nuovista. Anche sull’imprenditoria digitale avrei i miei dubbi: se volevo essere imprenditrice, non avrei scelto la strada che ho scelto.  Che cosa abbiamo fatto, insomma? Abbiamo messo a posto la biblioteca. 

Azione #24 PNSD: Biblioteche Scolastiche come ambienti di alfabetizzazione all’uso delle risorse informative digitali.  Eccola lì la sfida: integrare la tradizione con i nuovi strumenti, pensare il digitale non come tabula rasa di tutto quello che è stato fatto e insegnato finora ma come uno strumento potente ed efficace per agganciare il passato al futuro. Insegnare a pensare criticamente la Rete: scovare le informazioni, vagliarle, collegarle. Discuterle. Discutere persino quella certa idea, non so se più fatua o più presuntuosa (eppure circola, eccome se circola),  che vuole la redenzione della scuola italiana affidata unicamente al ruolo salvifico della tecnologia.  Costruire: cittadinanza digitale;  consapevolezza digitale;  etica digitale. O forse soltanto cittadinanza, consapevolezza, etica senza aggettivi. 

Su questo sento di poter lavorare. E sento anche che non sarò sola nella mia scuola. Avverto spesso, nei gruppi di animatori digitali che frequento in Rete per imparare qualcosa e e per confrontarmi con gli altri,  un grande sentimento di solitudine, un senso profondo di isolamento. Molti sono stati scelti loro malgrado, avvertono l’enormità del compito, sanno bene che fra il dire e il fare c’è di mezzo non il mare ma la melma vischiosa di abitudini inveterate dure a morire e aggravate dalla confusione, dalla demotivazione, dalla stanchezza di tanti colleghi. Perché quando tutta cambia troppo spesso e senza direzione (quante epocali riforme abbiamo subito negli ultimi vent’anni?), alla fine nulla cambia davvero  e ci si aggrappa alla routine per sopravvivere.

Di questo dato elementare e molto umano pochi, forse nessuno, fra quanti si sciacquano la bocca con novità mal digerite, tengono davvero conto. Verrebbe voglia di dire, esasperati: volete cambiare davvero? cacciateci, pensionateci. Ammazzateci tutti. Ma non si può. Perché questi prof bistrattati, disprezzati, additati costantemente al pubblico ludibrio,  alla fine tengono in piedi la baracca. Sono da rottamare? O piuttosto bisognerebbe comprenderne le ragioni e rispettarne le competenze?

Se mi tocca chiamarmi “animatrice digitale”, sopporterò. Ma in realtà sono e resto una semplice docente, parte di una comunità nella quale ciascuno dà quello che può e che sa. Ho sempre imparato dagli altri: in sala insegnanti dai colleghi più anziani quando ero alle prime armi, oggi da quelli più giovani che spesso hanno fatto esperienze formative diverse dalle mie; dai libri che ho letto, ovunque e in qualunque formato (di carta, sul Kindle, sul Kobo, sul tablet),  e dai miei tanti  amici e contatti, incontrati di persona e/o attraverso lo schermo del computer. Posso, in questo ruolo, restituire qualcosa: almeno spero. Perché comunque questo è il mio mestiere: faccio la prof, mica l’influencer!

 

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