Scuola
Interrogarsi è l’esercizio preferito della scuola
“Dentro la chiesa, saranno tutti azzurri i santi
che sfiorano coi teneri piedi i freddi banchi,
le mani e le facce rigide di santità”
Tra i lavori più malpagati nonostante il carico di responsabilità, attenzione, impegno, c’è quello dell’insegnante. Nonostante, soprattutto se si lavora in una scuola secondaria di secondo grado, il lavoro dell’insegnante non venga riconosciuto come usurante. A parte la grande mole di responsabilità che la società riversa sulla scuola poiché è qui che si imparano quelle norme del vivere civile che sono necessarie alla formazione di quel cittadino che dovrà integrarsi e operare nel mondo, entrare in classe e cercare di coinvolgere, appassionare e di far comprendere il più alto numero possibile di alunni, non è semplice.
La classe non è un ufficio, dove si può alternare il lavoro con la chiacchiera col collega, agli alunni viene richiesto di stare per ore seduti sulle loro sedie, quanto più possibile fermi e, in clima di pandemia, di limitare le occasioni di movimento. Si consiglia persino di gettare il materiale da cestinare prima dell’abbandono definitivo della classe.
Il movimento fa parte della natura umana, il covid ci ha insegnato che la chiusura fisica, la chiusura di attività commerciali, teatri, palestre, cinema, determina una chiusura dell’essere umano che non è un monolite il quale apprende soltanto seduto in una classe o dinanzi uno schermo, ma ha bisogno di ciò che nutre la sua anima, di energie vitali, di dare loro sfogo.
A scuola, lo studente impara anche a disciplinare il suo corpo, a non assumere posizioni comode, a stare seduto su sedie che non sono per nulla ergonomiche. Condividono con l’insegnante la seduta su un pezzo di legno che sostiene la loro postura.
Con la crisi delle famiglie tradizionali, l’aumentato numero dei divorzi e le atmosfere a volte conflittuali che si vivono in casa, l’insegnante svolge talvolta una funzione quasi vicaria, assume le sembianze del genitore mancante. Senza parlare, poi, del fatto che gli alunni non sono fatti in serie. Ciascuno vive in un mondo che gli è proprio, ciascuno ha bisogno di tempi e modalità di apprendimento diversi, alcuni ti lasciano tranquillamente entrare nel loro mondo, altri oppongono resistenza. Superare quelle barriere, quei muri silenziosi fatti di omertà e incapacità di chiedere aiuto è un lavoro gravoso, ma da cui non ci si può sottrarre se si svolge la propria professione con passione.
Gli alunni vanno osservati, non per coglierli in flagrante, ma per capire ciò che non dicono perché spesso neppure sanno esprimere cosa sta accadendo dentro di loro, ma che dicono diversamente con il loro taglio di capelli, il loro vestiario, i loro occhi.
La scuola richiede presenza continua e costante, lo sanno bene i coordinatori che sono coloro che hanno rapporti assidui con le famiglie e che, quest’anno, hanno dovuto disciplinare l’entrata a scuola dei ragazzi controllando certificati medici, e il completamento o meno del ciclo vaccinale. Un lavoro massacrante che viene retribuito con una cifra penosamente simbolica.
La scuola è presenza quando non sanziona semplicemente, ma si chiede perché il rendimento di un alunno peggiora, o perché un alunno non è interessato alla scuola.
La scuola pone domande. E in mancanza di risposte, se le pone. Cerca di arrivare allo studente partendo dal presupposto che è una persona.
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