Scuola
Il nuovo esame di stato e la sfida che pone alla sinistra
Una premessa: sono ben lontano dal condividere le spinte alla aziendalizzazione della scuola pubblica che abbiamo avuto in questi anni.
Ci tengo a sottolinearlo in quanto le cose che sto per dire potrebbero essere pesantemente fraintese. Si tratta comunque di una mia posizione personale che non rispecchia quella del gruppo LIP, al quale aderisco e del quale condivido in pieno le finalità, anche se a volte, come in questo caso, differisco nelle strategie e nelle valutazioni.
La mia è la scuola della Costituzione e questo significa qualcosa di molto preciso: credere in una scuola che debba promuovere la realizzazione del cittadino e svolgere un ruolo di ascensore sociale.
E’ evidente che questo ruolo è stato profondamente minato dagli interventi degli ultimi anni, che hanno impoverito la scuola sia sul piano delle risorse che del prestigio che dei contenuti.
Sui primi due punti si è detto tanto e non mi sembra di poter aggiungere altro.
Sul terzo punto invece credo sia d’obbligo una riflessione.
E’ sotto gli occhi di tutti come stia venendo messa in discussione una idea di scuola formativa, in cui l’importanza dei contenuti disciplinari e la loro imprescindibilità nella formazione di una persona consapevole, critica, aperta al mondo, stia sempre più passando in secondo piano rispetto all’obiettivo, neanche tanto nascosto, di trasformare la scuola pubblica in una specie di centro di addestramento al lavoro e di trasmissione di un modello di valori che fanno della subalternità alla logica di impresa il loro nucleo.
In quest’ottica, ad esempio, possono essere viste manovre quali il ridimensionamento del ruolo della Storia, la pratica scomparsa della Geografia, la pressoché sparizione delle classi a tempo pieno nella primaria, e tante altre del genere.
In quest’ottica viene letta anche l’eliminazione dei contenuti disciplinari nel nuovo esame di stato.
Devo ammettere che, d’impulso, questo è stato anche il mio giudizio.
Tuttavia, forse per la mia natura di “decimo uomo”, ho colto quest’occasione come momento di stimolo per riflettere su come noi, a sinistra, abbiamo condotto la politica scolastica negli ultimi anni.
Credo abbiamo una pesante autocritica da fare. Ovviamente mi riferisco alla sinistra che si riconosce nei valori della Costituzione, non certo a quella strana variante aliena che ha partorito la modifica Costituzionale del 2016, scritto il Job Act e la legge Fornero, introdotto nella Scuola concetti e parole d’ordine meramente confindustriali, dei quali la legge 107/2015 ne è piena.
La mia riflessione parte da lontano, da come abbiamo reagito all’autonomia, ad esempio, o al tema della valutazione. Non preoccupatevi, non inizierò questo discorso a partire da momenti così lontani. Esigenze di brevità ed incisività mi impongono di stare all’oggi.
Questo esame di stato, è la critica che viene fatta, elimina ogni necessità di contenuti all’interno della scuola, e la trasformerà gradualmente in un parcheggio dove agli studenti verranno proposte iniziative sempre più eterodirette, come nel caso dell’Alternanza Scuola Lavoro.
Il colloquio, si dice, servirà solo a certificare un vuoto di preparazione. Secondo questa critica la mancanza di un momento di verifica dei contenuti disciplinari rende non più vincolante insegnare Storia, Letteratura, Matematica e, addirittura, insegnare alcunché, perché se nulla che abbia a che fare con i contenuti viene valutato al termine del percorso, nulla in tal senso verrà insegnato.
In sostanza si prefigura uno scenario di resa totale della scuola pubblica, a cui potrebbe conseguire una totale perdita del valore del titolo di studio, sino alla sua formale abolizione, per la creazione di un sistema scolastico sul modello degli USA. La stessa proposta di regionalizzazione che stiamo vedendo farsi strada proprio in questi giorni va in quella direzione.
Non nego che questa critica contenga elementi di verità.
Sicuramente c’è chi ha proprio queste intenzioni e le ha manifestate, e praticate, in questi anni.
Ad esempio, il tentativo di contrapporre una astratta, e non ben definita, scuola delle competenze contro la scuola delle conoscenze, attribuendo alle prime, le competenze, il salvifico ruolo di medicina contro il malfunzionamento del mercato del lavoro (che secondo questa ideologia, non funziona non perché manchino i posti di lavoro ma solo perché i giovani non vengono adeguatamente preparati dalla scuola) e alle seconde, le conoscenze, lo stigma di una reminiscenza di un passato di astratta quanto inutile teoria, va proprio in questa direzione.
E’ evidente a chiunque si intenda di scuola, così come è evidente a chi fa della ricerca pedagogica il proprio mestiere, che le competenze definite a prescindere dalle conoscenze su cui dovrebbero innestarsi sono solo una scatola vuota.
Semmai il problema è altro: quale tipo di cittadino si vuole che la scuola prepari?
Secondo l’ideologia dominante, diciamolo pure, della destra più retriva e liberista, serve una scuola che prepari solo manodopera per l’economia 4.0.
Secondo noi serve una scuola diversa, che prepari cittadini che conoscano anche la Storia e la Geografia, così come il Diritto e l’Arte, e che, ovviamente, abbiano anche una solida, anzi direi solidissima, preparazione nel campo che hanno deciso dover essere il proprio futuro professionale.
In parole povere, ma chi lo ha detto che un tecnico di reti informatiche non debba conoscere Manzoni, Caravaggio o la Costituzione?
Abbiamo esempi, proprio in Italia, di come la cultura abbia dato uno sviluppo incredibile all’economia e alla ricerca. Senza citare i soliti Adriano Olivetti e Rita Levi Montalcini, pensiamo ai nostri giovani più preparati, che provengono da una scuola in cui ancora si insegna, in cui ancora i contenuti disciplinari non sono stati abbandonati.
Questi giovani, i nostri migliori studenti, finiscono per andare all’estero ed essere apprezzati, diventano spesso leader negli ambiti in cui operano, si distinguono per una preparazione che si poggia su un sostrato forte, ricco di cultura a 360 gradi.
Quindi il vero dibattito non dovrebbe essere fra la scuola delle competenze contro la scuola delle conoscenze, semmai dovremmo interrogarci su quali sono le competenze e le conoscenze ritenute fondamentali oggi, in questa Italia del terzo millennio.
E qui si apre un tema decisamente fuori dalla portata di questo intervento, e che riguarda la necessità di definire i saperi fondamentali che la scuola pubblica deve garantire.
E’ chiaro che su questo punto le differenze di visione ideologica (usiamolo questo termine, senza paura, visto che l’avversario fa uso dell’ideologia senza nasconderlo minimamente) fra destra e sinistra sono e restano nettissime.
Secondo la definizione che ne dette Bobbio, chi crede ad una società in cui venga dato più peso all’uguaglianza di condizioni, di opportunità, di diritti, vuole una scuola che prepari, e bene, tutti i cittadini, per metterli in grado di saper essere innanzitutto cittadini di uno stato democratico, e anche essere capaci di trovare una collocazione in qualsiasi ambito dell’economia del Paese, con l’unico limite dettato dalle preferenze, inclinazioni e capacità individuali.
Una scuola di questo tipo costa, e quindi è necessario l’intervento dello Stato per garantirla a tutti. E questo significa qualcosa di molto preciso in termini di politica fiscale e di intervento dello stato. E’ esattamente l’opposto del “meno stato più mercato”, è esattamente l’applicazione dell’articolo 53 della Costituzione, circa il dovere di contribuire in base alla proprie possibilità.
Chi invece persegue l’ideologia della diseguaglianza e dell’individualismo ovviamente vorrà spendere il meno possibile per una scuola pubblica di qualità, ridurla ad un luogo di semplice formazione al mercato del lavoro, e far semmai nascere costose, e private, scuole di qualità, riservate solo a chi avrà i requisiti di reddito (o dovremmo dire di classe?) per accedervi, e, al limite, prevedendo qualche “borsa di studio” per pochi, secondo un modello di welfare assistenziale e per nulla perequativo.
Come si vede, la differenza fra destra e sinistra esiste ancora.
Veniamo allora all’esame di stato, e proviamo a chiederci a quale disegno possa essere funzionale.
Dobbiamo però fare uno sforzo: dobbiamo pensare non alla volontà politica di chi lo ha voluto e progettato. Ciò è’ evidente, vista la continuità ideologica con la legge 107.
Tuttavia esiste, fortunatamente, nella storia, una cosa chiamata “eterogenesi dei fini”.
L’istintiva opposizione alle modifiche appena introdotte nell’esame di stato si traduce, per riflesso, nella difesa aprioristica dell’esistente.
Partiamo allora proprio dall’esistente.
Ho sentito, nei miei 30 anni di insegnamento, e quindi di partecipazione come commissario agli esami di stato, le cose più incredibili. Una perla che ancora ricordo risale, se non ricordo male, al 2010, quando uno studente alla domanda del commissario di Storia rispose affermando che Hitler era alleato degli americani.
Ecco: il punto è proprio questo. La nostra scuola sicuramente è ancora in grado di sviluppare eccellenze, e lo fa in molti casi, ma viene a crollare proprio laddove ci sarebbe più bisogno del suo intervento. Non è purtroppo infrequente constatare che la relazione fra stato sociale della famiglia di origine e esito scolastico sia molto forte, e che quindi laddove ci sono famiglie più fragili, situazioni socioeconomiche al limite, o oltre il limite, del degrado, la scuola non riesce più a svolgere il proprio ruolo.
Il recente intervento, offensivo, del ministro in merito agli insegnanti del Sud ignora palesemente questo dato di fatto: la scuola pubblica, indebolita e priva di risorse, in quartieri come lo ZEN o Scampia riesce a malapena a contrastare la criminalità, ad allontanare i giovani da un percorso deviante. E come potrebbe fare altro, nelle condizioni in cui è costretta ad operare?
E’ evidente: la scuola oggi, nonostante la buona volontà di chi vi opera, non ha più gli strumenti per svolgere il ruolo di ascensore sociale.
E l’esame di stato, per come è attualmente, non fa altro che certificare lo status quo.
Come si può pretendere che un colloquio di 45 minuti possa veramente accertare conoscenze e preparazione di uno studente, e per giunta farlo auspicando una astratta omogeneità su scala nazionale.
Da anni ormai l’approccio è ben altro. La commissione d’esame si limita a prendere atto di come sono andate le prove scritte, poi esamina il curriculum dello studente (in realtà esamina solo i voti del quinto anno) e quindi svolge il colloquio cercando da un lato di compensare qualche improvviso calo di prestazioni di alcuni studenti, e dall’altro, anzi, soprattutto, cercando di trovare un sistema per “promuovere”, magari con un risicato 60/100, i candidati più deboli.
Ovviamente c’è sempre la farsa di qualche commissario esterno (a volte anche interno) che si indigna con espressioni del tipo “ma come, per promuovere quell’asino di Antonio Rossi occorre dargli almeno 28/30 all’orale, è una vergogna”. E, altrettanto ovviamente, gli altri commissari e il presidente rispondono che se il consiglio di classe ha ritenuto di ammettere Antonio Rossi allora vuol dire che lo riteneva in grado di affrontare l’esame. Qualche volta capita che qualche studente riesca addirittura a farsi bocciare, ma, come confermano i dati, sono sempre più rari.
La situazione attuale (cioè fino allo scorso anno) è insomma un disastro: gli studenti, in prevalenza, arrivano impreparati in molte delle discipline, si concentrano sulle due prove scritte, sapendo che sono quelle decisive, tentano di sopravvivere nella terza prova, e infine affrontano il colloquio sapendo che sarà solo una specie di sceneggiata.
Che dire poi dell’operato dei consigli di classe? Appena note le materie oggetto delle due prove scritte e della terza prova, gli studenti smettono di studiare le discipline non coinvolte nell’esame. I poveri colleghi che hanno la sfortuna di insegnare proprio quelle materie si rassegnano a svolgere un programma minimo e ad essere generosi con i voti. Se qualcuno si ostina a “far sul serio”, e quindi qualche studente giunge allo scrutinio di ammissione con una, due o tre insufficienze gravi, il Consiglio finisce per decidere di ammetterlo, magari con ipocrite deliberazioni assunte “a maggioranza dei votanti”.
E’ veramente questo che vogliamo difendere? Attenti a questo nostro istintivo, condizionato riflesso che ci fa rifiutare tutti i cambiamenti solo per, legittima, per carità, diffidenza.
Questa non è la scuola della Costituzione. L’esame di stato in vigore fino allo scorso anno già adesso rendeva insignificante l’impegno dello studente durante il corso di studi, assegnando al percorso solo un 25% di peso sul voto finale. Già rendeva il colloquio una formalità. Già escludeva, o ridimensionava fortemente il ruolo di alcune discipline.
E allora come possiamo difenderlo?
Poi è giunta la riforma dell’esame di stato, già delineata nel gennaio 2017.
Proviamo a vedere alcuni dei suoi elementi caratterizzanti.
In primis, l’esame non è più un esame. Serve ad accertare altro, e magari poi vedremo in cosa consiste.
Quindi, se non è più un esame, allora, esplicitamente, non si devono più accertare i contenuti disciplinari.
I contenuti disciplinari sono però valutati, nel corso di tutto il triennio finale, dagli insegnanti che lavorano con lo studente. E il consiglio di classe ha un peso del 40% rispetto al voto finale.
Ed inoltre la legge ribadisce che non si viene ammessi all’esame se si è in presenza anche di una sola insufficienza.
Cosa significa tutto questo? Che spetta al consiglio di classe “fare scuola”: preparare e valutare i propri studenti, e decidere se ammetterli o meno, sapendo che in caso di ammissione il loro giudizio peserà parecchio sul voto finale. Ovviamente tutto ciò non esclude che alcuni consigli di classe possano essere più o meno severi di altri, ma ciò già accade oggi e accade anche a livello di commissioni.
Giusto è rivendicare un meccanismo per rendere più omogeneo su base nazionale il comportamento dei consigli di classe nelle varie scuole d’Italia, ma questo non è contraddittorio con il fatto di assegnare maggiore responsabilità al consiglio di classe. .
In secondo luogo le due prove scritte, che rappresentano un ulteriore 40% del voto finale, possono essere (dipenderà ovviamente da come verranno costruite) un efficace strumento per valutare la capacità dello studente di mettere a frutto conoscenze acquisite in alcune discipline e applicarle ad un contesto concreto.
Faccio notare che questa impostazione non è molto diversa da ciò che già accade in molti casi.
Sono quindici anni che la seconda prova dell’indirizzo Informatico degli istituti tecnici, sia che esca Informatica sia che esca Sistemi e reti, è di fatto multidisciplinare, comprendendo sempre elementi di Informatica, Sistemi, Elettronica e, di recente, Gestione progetto e Tecnologie di progettazione. E’ una prova difficile, ma mette in luce le conoscenze e la loro capacità di applicarle in modo non meccanico e ripetitivo.
Sicuramente per i licei questo rappresenta una novità, ma in ogni caso il fatto di passare, per i Licei, da una seconda prova che coinvolge una sola disciplina ad una che ne coinvolge almeno due va sicuramente nella direzione di accertare (guarda caso, con una prova unica a livello nazionale e con griglie di valutazione proposte a livello nazionale) la padronanza di un più vasto ventaglio di conoscenze.
Io in tutto questo non ci vedo nulla di male, anzi, è un segnale molto forte anche agli studenti e ai consigli di classe: nessuna disciplina può essere lasciata indietro e non si può essere troppo approssimativi nella valutazione di ammissione degli studenti perché le due prove scritte potrebbero rappresentare uno strumento di verifica piuttosto significativo.
Infine resta il colloquio, l’unica vera novità introdotta da questa riforma dell’esame.
La filosofia che si nasconde dietro il colloquio è molte semplice: le conoscenze le abbiamo accertate tramite il consiglio di classe e le prove scritte. Adesso usiamo il colloquio per valutare qualche altra cosa, che normalmente sfugge alla valutazione per singole discipline.
Cerchiamo cioè di valutare quel “quid” in più che ciascuna scuola potrebbe, dovrebbe, aver dato allo studente: la sua capacità di essere cittadino, in due sensi.
Innanzitutto nel senso rappresentato dalla familiarità con problematiche che hanno a che fare con la cittadinanza e la Costituzione. Penso a progetti come legalità, lotta al bullismo, cineforum su tematiche sociali e politiche, partecipazione a iniziative sul territorio e, ovviamente, anche la conoscenza di quegli elementi di cultura della cittadinanza che da quando ero alle scuole elementari sento declamare come importanti ma che poi non ho mai visto valutare e insegnare veramente da nessuno, in nessuna disciplina, salvo forse, qualche meritevole eccezione fra i docenti di diritto e di storia.
Secondariamente nel senso di essere un cittadino che capisce le tendenze del mondo che lo circonda, cerca di trovarsi il proprio spazio, conosce ciò che accade nel suo territorio e nel tessuto produttivo circostante. Molti hanno banalizzato dicendo “allo studente verrà chiesto di raccontare come ha fatto le fotocopie durante l’alternanza scuola lavoro”. Non è così. Già il nome della fase di colloquio lo dice: non si parla di “alternanza scuola lavoro” ma di “iniziative di orientamento al territorio”. Poi, ovviamente, dipenderà da come la scuola saprà preparare percorsi ad hoc, e qui entra in gioco l’autonomia dei collegi docenti e dei singoli docenti. Spetta a loro farsi portatori di certi valori nella scuola, oltre, naturalmente e indiscutibilmente, che insegnare le discipline.
Anche oggi ci sono, e ci sono sempre stati, docenti con questa sensibilità. Non è certo l’esame di stato che li deve inventare. La novità è che oggi l’impegno profuso in tutti questi progetti può diventare uno dei fattori di valutazione dello studente.
Il colloquio termina poi con la famosa domanda quiz. Ecco, qui si è commesso un errore molto grossolano. Probabilmente tale proposta è scaturita come risultato di uno scontro di posizioni che non sappiamo. Per come è stata impostata è non solo macchinosa e probabile fonte di complicazioni e contenzioso, ma, probabilmente, anche poco utile. In sostanza: questa è una follia!
Se, come dichiarato, l’obiettivo è vedere come lo studente sia in grado di argomentare e utilizzare le proprie conoscenze di fronte ad un caso concreto, partendo da uno stimolo, forse si poteva trovare una soluzione diversa, ma l’intento resta valido.
Quindi, in conclusione, che dire del colloquio? Assegna solo 20% dei punti del voto finale, si pone l’obiettivo di accertare capacità importanti nella preparazione del cittadino, alle quali sino ad oggi non si era prestata sufficiente attenzione.
Siamo sicuri che ciò sia da condannare? Siamo sicuri che un esame che stimola la scuola ad agire in questa direzione sia contrario al dettato costituzionale? Personalmente lo trovo molto più di sinistra di quanto non sia la attuale situazione. Questo esame di stato presuppone un cittadino preparato da una scuola che deve avere la capacità di valutarlo e che deve dare qualcosa in più, e non di meno, di una tradizionale e solida preparazione di contenuti.
Certo, mi si dirà che la scuola di oggi non è preparata per questo esame, che non ci sono le condizioni… tutto vero, ma se fino ad oggi questa scuola, per precise volontà politiche che la hanno continuamente impoverita, non ha saputo andare in una direzione diversa, non sarà certo l’esame di stato a fare la differenza, nel bene e nel male.
Quello che succederà veramente, se cioè questa sfida sarà raccolta dagli insegnanti, e soprattutto da quelli che condividono i nostri valori, dipenderà dalla capacità che avranno nel riempire questa scuola dei contenuti. E’ una sfida. E’ una opportunità. Non ha senso difendere un esistente indifendibile e sottrarci alle sfide che il cambiamento ci pone. Altrimenti il cambiamento lo gestiranno altri.
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