Scuola

“Un’università eccellente e pubblica, il modello Bicocca per ripartire”

15 Luglio 2020

“Gli Atenei milanesi e, in generale, gli Atenei lombardi, di comune accordo, hanno deciso intorno al 20/21 febbraio di fare le lezioni a distanza. Abbiamo anticipato la fase uno prima ancora che fosse regolamentata a tutela della nostra comunità. Io ho ereditato un Ateneo che aveva già investito molto in tema di digitalizzazione e e-learning. Questo ha sicuramente fatto grande differenza, agevolandoci nella gestione a remoto delle attività di didattica e ricerca dell’Università di Milano-Bicocca. Siamo riusciti a far laureare online i nostri studenti da marzo: sono state circa 1700 i laureati e non abbiamo fatto perdere nulla ai nostri studenti. La nostra fase uno è stata come gli inverni in cui i contadini curano i campi prima della primavera. Il nostro marzo è stato comunque molto difficile, soprattutto per la nostra sede di Medicina e Chirurgia a Monza. L’Università Milano-Bicocca è infatti, legata per attività scientifiche e didattiche all’Ospedale San Gerardo che ha accolto circa 2 mila pazienti covid, con docenti attivi a contrastare il virus al San Gerardo, al Niguarda, a Bergamo, lavorando in prima linea. E poi abbiamo moltissime strutture di ricerca e laboratori che sono stati molto impegnati nella ricerca sul virus”.

Giovanna Iannantuoni, economista, Rettrice dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, guarda indietro con orgoglio. Sorride, sprizza idee e progetti. Guarda indietro e soprattutto avanti. Racconta di un Ateneo eccellente e pubblico – lo ripete, lo ribadisce, lo sottolinea – che deve diventare un laboratorio per la nuova normalità che abbiamo davanti. “Sorrido quando ripenso ai giorni in cui si diceva che sarebbe stato tutto chiuso, tutto fermo. Noi, con la nostra ricerca ospedaliera e sanitaria e con la nostra attività necessaria a far continuare la didattica, non ci siamo fermati neanche mezz’ora”.

Insomma, questa era la versione giusta del #milanonsiferma, questa era la città che non doveva e non poteva fermarsi.

Questa era l’unica versione giusta di quell’espressione, non c’è dubbio. La città che continua a produrre intelligenza e sapere e che continua a macinare ricerca per uscire dal dramma. Il mio obiettivo di lungo periodo – che ho costruito in molti anni di lavoro e ricerca all’estero – è avere un Ateneo internazionale, inclusivo e aperto alla città. E fare questo in un tempo in cui isolamento e distanziamento sociale sono diventati patrimonio comune è particolarmente complesso e, insieme, quanto mai importante. Per fare questo, ad esempio, col Dipartimento di Scienze della Formazione abbiamo attivato un blog che si chiama “Milano per la scuola” dove i nostri professionisti hanno aiutato gli insegnanti in un’esperienza nuova e difficile, soprattutto coi bambini più piccoli. E in ventimila si sono connessi, a testimonianza della bontà dell’intuizione iniziale. Contemporaneamente abbiamo cercato di fare il nostro meglio sulla didattica, con 37 mila studenti a cui provare a stare vicini nonostante la lontananza fisica obbligata… Tutto ciò che siamo riusciti a fare è frutto di tantissimo lavoro, di sforzi fatti nell’immediato e di un’eredità di investimenti e intelligenza che arriva dal passato.

Poi, un po’ alla volta e con poche certezze ci si è avvicinati alla fase 2. Come funziona il “pensiero della riapertura” per un Ateneo così grande?

Ovviamente il nostro compito era garantire sicurezza a chi frequentava l’Università e ai lavoratori, con 200 mila mascherine ordinate per tempo, gel e test sierologici, che sono serviti sia per la sicurezza sia in termini di indagine epidemiologica. Sono una Rettrice donna e credo che questa sensibilità abbia contato molto nel mio modo di gestire la pandemia perché ho provato a tenere insieme tutto, anche il bisogno di cambiamento che non può arrestarsi. Così per la fase due eravamo pronti e mano a mano che le cose sono andate meglio abbiamo aumentato i numeri di accesso. In lockdown eravamo 60 adesso siamo 650. E abbiamo visto anche una crescita progressiva di fiducia da parte dei lavoratori. Perché se fai le cose giuste, le persone capiscono e seguono. Io vorrei davvero fare di questo Ateneo un laboratorio di cambiamento sociale e secondo me farlo in un’Università di eccellenza, dal punto di vista della ricerca e della condizione finanziaria è un’opportunità, e quasi un dovere.

Immagino, anche da voi, e tra di voi, c’era la voglia di tornare a guardarsi in faccia, a parlarsi di persona.

Inutile che ce la raccontiamo: non è la stessa cosa stare a casa, insegnare da casa, studiare solo a casa. Oltre al noto rischio della sindrome della grotta c’è una perdita di stimoli e di confronti innegabile. Dobbiamo essere razionali e usare il buonsenso: evitare assembramenti senza mascherina non è uguale a vedersi in modo attento e prudente, rispettando regole che ormai tutti conosciamo. Noi siamo uscita dalla fase due con una decisione politica impegnativa, approvando un piano da 8,5 milioni, che coniuga la mia visione di cambiamento con la messa a terra pragmatica. A me interessa che ci sia una visione forte e insieme una capacità di rendere concrete le decisioni. In questo piano poderoso, dal punto di vista economico, io trovo il senso di cosa significa davvero essere un Ateneo pubblico, aperto a studenti di ogni classe sociale e di grande qualità, visto che su 14 dipartimenti 8 (tra cui Medicina, Chimica, Fisica) sono riconosciuti come di eccellenza. L’eccellenza della ricerca dev’essere per tutti. Questo è fondamentale, come è fondamentale evitare l’isolamento e fare sì che il nostro Ateneo, e tutti gli altri, restino aperti a studenti di altri territori.

Una delle caratteristiche più rilevanti del vostro Ateneo è infatti la capacità di essere davvero un punto di riferimento popolare per gli studenti, anche per molti studenti lombardi che pendolano, arrivando soprattutto dal Nord della regione o da fuori regione, magari non potendosi permettere un affitto. Questo era in aperta controtendenza rispetto al “modello Milano”, che sembrava declinarsi come “eccellenza ma per pochi”. Ecco, questa è una delle caratteristiche che la pandemia rischia di mettere più in crisi.

Questo è esattamente il punto centrale della mia sfida, ma anche dell’orgoglio. Noi abbiamo tantissimi studenti che sono i primi laureati delle loro famiglie. È un tema centrale, l’Università come ascensore sociale, e di cui dobbiamo davvero occuparci. Di questi 8,5 milioni la metà riguarda gli studenti. Tutti gli studenti, a prescindere da reddito e media accademica, quindi proprio tutti, riceveranno una sim dati che ha permesso la connessione facile e gratuita per tutti. Questo per me è stato anche un segnale identitario, di appartenenza. Questo costa due milioni, e farlo per tutti era la cosa più facile, anche perché abbatteva i costi operativi e amministrativi.
Poi, ho voluto dare priorità alle matricole perché sono quelli più fragili. Hanno saltato mesi e mesi di lezioni, gli ultimi del loro ciclo scolastico. Hanno vissuto in modo ridotto l’esperienza dell’esame di stato. Credo sia fondamentale che per loro l’inizio dell’Università sia più normale possibile. Ho voluto, quindi, che per loro ci siano lezioni in presenza, se si potrà. Per questo ho investito parte del budget per dare priorità alle matricole, e un bonus perché possano comprare computer e tablet, con una parte pagata da noi.
La terza area di intervento riguarda specificatamente la fascia più fragile, quella dei titolari alle borse per il diritto allo studio che vanno a studenti con Isee familiari bassi e sono fuorisede, e ad altre fasce di bisogno. Sono quelli che, con la crisi, più rischiamo di perdere. Parliamo di circa 3500 ragazzi. Per loro abbiamo stanziato 1,5 milioni, e abbiamo deciso di integrare la loro borsa, con importi dai 180 ai 500 euro su base annuale. Spero che davvero questo aiuti a studiare in Bicocca anche per chi sta incontrando ulteriori difficoltà. Questi interventi sono interventi su capitale umano, che sto accompagnando con interventi strutturali di modernità. Puntiamo infatti a rafforzare i nostri laboratori informatici virtuali che già contano 1800 postazioni. Siamo il primo Ateneo che ha tutte le postazioni con queste caratteristiche. Inoltre abbiamo l’80% di aule con streaming: vogliamo completare e arrivare al 100%. E poi, per il personale amministrativo, vogliamo davvero arrivare a un sistema stabile ed esteso di smart working che è una cosa assai diversa rispetto al telelavoro.

Una differenza che per molti, nella sua applicazione concreta, è diventata anche una fonte di sofferenza e difficoltà organizzative, di vita e lavoro.

Assolutamente sì. Proprio perché siamo coscienti della situazione, abbiamo investito in un software e in 400 portatili, in modo da fornire alle persone che lavorano per l’ateneo tutto quel che serve per lavorare. Perché per chiedere di lavorare in una modalità nuova è indispensabile fornire una buona qualità di lavoro. Il mio sogno è rendere completamente flessibile gli orari di lavoro e la scelta della modalità presenza/remoto. Se riusciamo a rendere completamente flessibile il meccanismo, allora siamo davvero in grado di far aumentare la soddisfazione delle persone e insieme la loro produttività. Mi rendo conto che è ambizioso, ma credo si possa fare.

Il suo è un Ateneo “di periferia”, anzi di estrema periferia. Come vive il rapporto col centro cittadino? Come cambierà con la nuova geografia mentale della città e di chi la popola a vario titolo?

Se Milano ha davvero l’ambizione di stare nel contenitore di Parigi o New York, allora dobbiamo costruire una metropoli policentrica. Ma davvero. Da questo punto di vista, come Rettrice dell’Ateneo vorrei essere promotrice di una crescita culturale di questo quartiere. Vorrei che ci radicassimo anzitutto per i cittadini che vivono in quest’area e nella parte di Città Metropolitana a noi più vicina come luogo che fornisce l’opportunità di suonare, di ascoltare dialoghi civili e di parlare di politica. Voglio costruire davvero un museo diffuso, contribuire al miglioramento della vivibilità della città con atti concreti, come la ripavimentazione delle piazze. E ovviamente, voglio rafforzare ulteriormente il rapporto con il tessuto produttivo e imprenditoriale della città e non solo. Penso che sarebbe giusto che tutti potessero vivere a Milano, perché la possibilità di una città davvero interclassista e multicutlurale costruisce apertura mentale, scambi preziosi e regala anni irripetibili per chi vive in quel momento la sua formazione universitaria.

Tutti programmi ampi, di lungo periodo. Su cui pesano, per un futuro abbastanza lungo, ampi elementi di incertezza.

Sì, il tasso di incertezza è alto. Noi dobbiamo rispondere all’incertezza rafforzando la nostra capacità di flessibilità. Quello che sarà, quando sarà, noi lo affronteremo insieme. Ci conforta il fatto che la “domanda” di entrare a vario titolo nel nostro Ateneo tiene eccome. Abbiamo chiuso il bando scuola di dottorato: boom di di iscrizioni, 2000 domande per 110. Per quanto riguarda le iscrizioni ai test di ammissione, siamo in linea. E ricordiamoci che il vero rischio non è che gli studenti non vengano a Milano, ma che non studino più. Naturalmente dobbiamo sperare di tornare presto al tempo d’oro di Milano ma senza cullarci nel mito dell’eccellenza: dobbiamo anche capire cosa migliorare, mettere a fuoco quel che non funzionava prima. Il mio sogno per Milano è costruire spazi di ricerca e formazioni sì eccellenti, ma alla portata di tutti. Continua a essere un obiettivo vitale per il futuro della città, e non solo.

Ha citato prima il “femminile” come elemento distintivo. In che modo lo è, in che maniera sente che ha caratterizzato le sue scelte?

Partiamo dall’inizio…. Sono stata anche criticata, perché mi candidavo con una bambina piccola. E io, invece, voglio fare la Rettrice anche perchè sono mamma di Chiara, e perché voglio cambiare ciò che posso attraverso i suoi occhi. Noi oggi viviamo in un mondo disegnato dagli uomini per gli uomini. Io vorrei invece disegnare un mondo per tutti, maschi e femmine. Le politiche che provo ad applicare, quelle di cui abbiamo parlato, sono per le persone. Nello specifico del nostro Paese, poi, se guardiamo ai dati Ocse succedono cose che non riesco a definire se non immorali. Se hanno fatto figli, le donne italiane per almeno un anno non lavorano. Molte, poi, non riprendono mai. Non è accettabile: si può avere una figlia piccola e fare la Professoressa universitaria, o il rettore. Si deve avere l’opportunità di scegliere.

Un cambio di paradigma fondamentale, eppure radicato. Un altro.

Esatto. Me lo chiedo spesso, pensando al mondo post-Covid. Avremo la forza di cambiare i paradigmi? In tanti mi hanno detto “ma perché spendi così tanto per una crisi passeggera?”. Ma io l’ho fatto e ognuno lo deve fare, per portare verso il futuro tutto quel che abbiamo imparato, dolorosamente, col virus. Vale per i trasporti, per la sostenibilità, ecc… se ognuno di noi fa la sua parte, qualcosa di buono resterà davvero.  Così, magari ricominceremo a interrogarci su quale modello di sviluppo prevediamo per il futuro del nostro Paese. In un mondo iperconnesso, questa crisi deve finire dappertutto. Io credo che, a quel punto, ci saranno le condizioni per un nuovo rinascimento. Ma dobbiamo avere il coraggio di non rimuovere quello che è successo. E bisogna avere il coraggio di non dire che andava tutto bene.

Quanto riusciremo a essere davvero innovativi?

In Italia il livello di investimento sull’Università è pari allo 0,3% del Pil. Solo la Grecia fa peggio di noi. Un vero cambiamento si produrrà solo quando invertiremo la rotta.

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