Scuola
I ragazzi analfabeti non esistono. E quel 35%, per difetto, siamo noi
Quel 35% di nostri ragazzi che non capisce quel che legge dà scandalo in tutti i luoghi della cosiddetta cultura. Sono i risultati dei test Invalsi sugli studenti, tra gli altri, di terza media e di quinta superiore. Cosa vuol dire esattamente non capire quel che si legge, essere forse ignoranti, scemi, ritardati, brutti sporchi e cattivi? No. Eppure è quello che neanche tanto sottilmente emerge dalle articolesse sull’argomento. Addirittura Silvia Ronchey ci racconta su Repubblica che è tipico dei regimi mantenere una bassissima intensità culturale per poter eterodirigere le masse. Una coglionata che non sentivamo da lustri. In tempo salviniano, poi, una manna. Quando emerge in superficie una statistica di forte impatto come questa, buona cosa sarebbe motivare quei numeri terribili con qualche straccio di esempio concreto. Perché noi a casa vogliamo capire, noi genitori intendiamo. Fateci un esempio, di grazia: di fronte a quale testo, un tredicenne o un diciottenne che legge con (apparente) attenzione, interrogato “non rispose”? Sui giornali e sui siti non ci sono esempi, per cui è difficile capire il livello di questo sprofondo. E ancora: lo studente che non capisce un testo scritto, mostra invece chiari segni di apprendimento se quel testo, anziché scritto, gli viene esposto a voce? Perché in questo caso, possiamo forse porci il problema se sia stato concepito in un italiano problematico, criptico, se non addirittura deficitario. Siamo così certi, al fondo, che siano sempre “gli altri” a non capire?
Avendo una certa consuetudine alla lettura, rientro perfettamente in quel 35%, pur non essendo più ragazzo da un pezzo. Nel senso che molto spesso non capisco un testo scritto. Quando non lo capisco perché l’argomento è estremamente tecnico, me ne faccio una ragione: sono ignorante e pago dazio. Ma spesso non capisco gli scritti sui quali un minimo d’esperienza dovrei averla: in quel caso, il test Invalsi concluderebbe che sono un analfabeta? Precisazione dovuta: non è che non capisco il testo, perché intellettualmente in disaccordo. No. Proprio non capisco la lingua italiana usata per illustrarlo.
È escluso che un ragazzo di tredici o di diciotto anni, naturalmente di questo mondo, possa non capire quel che legge, se quel che sta leggendo è scritto in una lingua compiuta. Se quella lingua è universale, e soprattutto lieve. Se viene esposta con efficacia narrativa, se coglie il punto delle cose, e se, eccoci al punto, sa di rivolgersi a degli interlocutori precisi. Non imprecisati ragazzi raccontati da vari trattatelli di psicologia, ma proprio “quei” ragazzi che i professori hanno di fronte al loro sguardo. Se una lingua cala da un altrove, ovvio che nessuno la capirà mai.
Viene da pensare che la parola “analfabeta” è così estesa che i campi a cui può rivolgersi sono infiniti. Prendiamo la politica e rivolgiamo la nostra attenzione all’estenuante dibattito che scorre sui social, e non solo, riguardo le condizioni italiane. Questa situazione ci offre la possibilità di qualche esempio illuminante. Se persone anche culturalmente provviste, scrivono che nel Paese è in atto un regime, e ne enumerano le ragioni anche con la passione che l’argomento richiede, dovremmo tecnicamente concludere che questa è una posizione da analfabeti. Al pari dei nostri studenti, infatti, costoro non capiscono quel che stanno “leggendo”. A meno di non pensare che, sotto quel che sarebbe da considerare puro analfabetismo (funzionale), non si nasconda invece una vera e propria malafede, cioè una lettura capziosa di ciò che si sta “leggendo”. Il che è anche possibile.
E poi c’è la vita. Facciamoci pure due domande: se un ragazzo, che secondo questa statistica non capirebbe quel che sta leggendo, arriva primo alla risoluzione di un problema sociale o anche pratico, attraverso un’intuizione, un lampo, le frequentazioni che ne hanno vivacizzato l’animo, questa traduzione simultanea dell’esperienza sotto quale cielo la vogliamo rubricare? Insomma, l’analfabetismo è certamente un problema, ma la velocità con cui si tracciano dei profili generalizzati per categorie sociali ha persino i tratti della volgarità. È una semplificazione esageratamente comoda, fa sobbalzare le anime belle che una mattina si trovano sui giornali la notizia che i nostri ragazzi non capiscono un’emerita cippa di quel che leggono (se mai leggono). Perché non facciamo lo stesso, grande, gioco Invalsi con i grandi, perché non facciamo leggere dei bei testi ad adulti consapevoli, per poi chiedere: cosa ha capito, gentile signore, di quel che ha appena letto, un cazzo, ma va’?
Quelli che scrivono, che hanno la responsabilità di trasferire, attraverso la scrittura, i sentimenti del nostro tempo, escano finalmente dal loro corpo di oscuri redattori della Gazzetta Ufficiale. In fondo, basterebbe qualche Maigret di Simenon.
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