Scuola

I genitori devono poter valutare le scuole dei loro figli

5 Ottobre 2024

LA VALUTAZIONE SCOLASTICA: DEGLI ALUNNI O DEI PROFESSORI?
Riflessioni di un genitore su come dovrebbe cambiare la valutazione nella scuola italiana.


QUATTRO

Un genitore, e sto parlando di un genitore preso nella sua singolarità, può essere in grado di valutare la qualità della didattica proposta al figlio, semplicemente in base ai risultati scolastici raggiunti dal figlio in questione. Se il ragazzino sembra un tipo sveglio, ma a lezione impara poco, il genitore può decidere di spostare il figlio in un’altra scuola.
In molti paesi, dalla Svezia, al Canada, agli stessi Stati Uniti, è sostanzialmente riconosciuta ai genitori la possibilità di dare un giudizio sulla scuola frequentata dai loro figli, perché l’offerta formativa (intesa come numero di scuole presenti sul territorio) è molto ampia e gli studenti possono cambiare scuola se loro (o i loro genitori) lo desiderano, iscrivendosi anche a scuole private la cui retta è interamente sostenuta dallo stato.

Nei paesi anglosassoni, quest’ultimo tipo di scuole si chiama Charter School (1), in Svezia Friskola (2), e sono molto criticate, perché, in quanto istituzioni private, sono orientate al perseguimento del profitto e quindi potrebbero trovarsi nella situazione di “risparmiare” sulla qualità degli insegnamenti impartiti ai loro studenti. Ma il fatto che un’istituzione privata nel campo dell’istruzione sia orientata a ottenere dei profitti non è di per sé un motivo sufficiente per metterla fuori legge. Cosa dovremmo fare: chiudere l’Università Bocconi di Milano e tutte le università americani appartenenti al circuito dell’Ivy League solo perchè sono private? La risposta naturalmente è no, anche perchè se lo sbocco lavorativo offerto dalle università in questione fosse scarso o nullo, proprio in virtù della cattiva istruzione ricevuta dai loro studenti, nessuno vi si iscriverebbe più (e le università dovrebbero chiudere).

Ho fatto questa lunga serie di esempi per dimostrare che esistono dei paesi in cui i genitori sono tenuti in grande considerazione, soprattutto quando si instaura una competizione tra le scuole, sia pubbliche che private, nell’aggiudicarsi gli studenti, anche se sarà lo stato a pagare la retta di quelle private. So che molti in Italia non condividono l’idea della “competizione” tra scuole, ma devo confidarvi che ho una laurea in Economia e ritengo “sana” la competizione, quando è regolata da un buon sistema di norme. Nel caso delle scuole private, la buona norma è che la retta sia interamente pagata dallo stato, e non solo in parte, come avviene in Italia, in cui i voucher offerti dalle regioni, pari in genere a un terzo della retta, sono solo un favore alle famiglie più ricche, in grado di pagare gli altri due terzi. Il voucher dovrebbe coprire l’intera retta ed essere offerto a chiunque desideri iscrivere il figlio in una scuola privata (dico ancora una volta: vinca il migliore!).

La domanda che dobbiamo invece porci nei paesi in cui viene garantito ai genitori (e poi anche agli studenti, quando crescono) il diritto di scegliere la scuola a cui iscrivere i figli è invece un’altra: tutti i genitori sono in grado di esprimere un giudizio “informato” sulle scuole che potrebbero frequentare i figli, indipendentemente dal loro livello culturale? La risposta naturalmente è no. I genitori più istruiti e in grado di raccogliere informazioni, sapranno individuare le scuole migliori e magari inseriranno i loro figli nelle lunghe liste d’attesa per quelle scuole, a cui bisogna iscriversi con anni d’anticipo per aggiudicarsi un posto. Gli altri invece manderanno i figli nelle scuole “peggiori”, secondo un principio di asimmetria informativa tra chi dispone di una buona cultura generale e chi invece sceglie semplicemente la scuola più vicina a casa (che magari è la scuola pubblica del ghetto, svedese o americano che sia) dove i docenti faticano a tenere a bada l’alto numero di “casi difficili” presenti nel contesto in cui insegnano.

C’è un famoso podcast sulla scuola americana, “Nice White Parents”, tenuto nel 2020 sul New York Times da una mamma-giornalista (3), che inizia proprio con la questione della scelta della scuola primaria del figlio. Lei e il marito scelgono “sorprendentemente” una scuola pubblica di New York, dove dei genitori “bianchi ma carini” (non di destra, cioè) iscrivono i loro figli perchè favorevoli a un progetto di integrazione con i molti bambini afroamericani e di altre etnie presenti in quella scuola (in America bisogna ancora indicare a quale etnia si appartiene quando ci si relaziona con l’amministrazione pubblica). Nel corso delle puntate, la mamma-giornalista scoprirà che i “Nice white parentspolitically correct sono nella sostanza ancora razzisti, interessati a difendere i privilegi culturali della loro progenie, perché si battono per istituire a un corso di francese molto chic, promosso da uno dei genitori liberal, bianco, naturalmente, che vorrebbe far frequentare al figlio, dimenticandosi delle buone intenzioni inclusive iniziali. Il podcast è in ogni caso molto interessante perchè dimostra quanto “normale” sia considerato negli Stati Uniti mettere il naso nella scuola dei figli.

Chiudo il mio excursus che qualcuno potrebbe giudicare eccessivamente esterofilo, con la constatazione che l’opinione sui genitori italiani – “Voi non sapete nulla dell’insegnamento, fuori dalla scuola, fatevi gli affari vostri!” – verrebbe invece molto mal giudicata nei paesi in cui sono vietati non solo i luoghi comuni, ma dove si ragiona con una profondità maggiore sul ruolo effettivamente svolto dai genitori nel rapportarsi con le istituzioni scolastiche.

Certo, il fatto che oggi molti dei nostri figli siano figli unici ci rende più ansiosi sul loro rendimento scolastico: non c’è bisogno di essere un esperto di politiche occupazionali per sapere che con una laurea in ingegneria sarà più facile trovare lavoro che non con un diploma di terza media. Ammetto senz’altro che esistono particolari forme di ansia da parte dei genitori nei confronti dell’andamento scolastico dei figli, soprattutto quando questi sembrano distratti dalle nuove forme di intrattenimento online: mi riferisco ai social media e ai videogiochi che non esistevano quando sono andato a scuola io. L’unico tipo di socialità “estesa” che conoscevamo era quella della condivisione di attività politiche insieme agli altri studenti, che incontravamo personalmente, con grande soddisfazione reciproca, perché diventavamo amici.

In quei tempi, poi, il numero di relazioni che potevamo stabilire erano limitate per definizione, perché erano relazioni “fisiche”: non era possibile incontrare venti ragazzi per volta o comunicare con un centinaio di persone al giorno (c’erano solo i telefoni fissi nelle abitazioni). Oggi i nostri figli si trovano invece di fronte alla possibilità di costruire relazioni online con un numero elevatissimo di soggetti, e questo richiede un’incredibile quantità di tempo per tenere vive queste centinaia di relazioni con emoticon, messaggini, cuoricini vari.

Il fatto produce sicuramente un effetto dispersivo sulle capacità dei ragazzi nel rimanere concentrati sullo studio. Il compito dei genitori potrebbe essere quello di tenere a bada queste distrazioni, dosando il tempo che i ragazzi possono trascorrere online. Ma è impossibile chiedere ai genitori di opporsi da soli allo spirito del tempo, che è appunto la virtualizzazione di relazioni infinite, nate e cresciute sul web, che non sembrano capaci di garantire un vero arricchimento spirituale, così come succede invece nelle amicizie coltivate nei confini fisici della realtà. Ma anche la scuola deve fare la sua parte. Provo a fare un esempio: un docente che faccia una lezione appassionante e inviti i ragazzi a partecipare alla discussione successiva sugli argomenti trattati, senza la mortificazione di mettere un voto ogni volta che gli studenti  aprono la bocca, non sarebbe già un enorme passo in avanti? Non si potrebbe lasciar da parte la valutazione (ogni tanto…) nel momento in cui i ragazzi sono spinti ad apprendere, ad appassionarsi agli argomenti delle lezioni, ad aprire la loro mente di fronte alle meraviglie del sapere (scusate la banalità dell’espressione?).

Beh, io credo di sì.

 

(1)    Charter School

(2)    Friskola

(3)    Chana Joffe-Walt, Nice White Parents, The New York Times, July 2020.

 

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