Scuola
Ha ragione la mamma finlandese sulla scuola italiana
Elin Mattsson, la pittrice finlandese scappata da Siracusa per portare via i figli dalla scuola in cui erano finiti, ha avuto il coraggio di raccontare quello che succede in molte aule delle scuole elementari italiane. Ecco un brano della lettera pubblicata integralmente su Siracusa News in cui la finlandese racconta il dialogo con una delle maestre del figlio: “La giornata scolastica si trascorre sulla stessa sedia dalla mattina fino a quando non si ritorna a casa. Cosa? “Non esistono pause dov’è permesso muoversi?” Chiedo. “Solo piccole pause nella stessa classe.” È stata la risposta che ho ricevuto.”
La signora Mattsson ha tagliato la corda per andare in Spagna, alla ricerca di una scuola migliore della nostra, dopo aver ricordato che: “In Finlandia, gli studenti hanno una pausa di 15 minuti tra una lezione e l’altra, e lasciano l’aula per giocare insieme nel giardino/patio. Uno o due insegnanti li tengono d’occhio mentre sono fuori. La Finlandia si rende conto dei benefici di bambini che si muovono, giocano, urlano e corrono liberamente all’aperto per liberarsi delle energie in eccesso e prendere aria fresca, così da ottenere migliori risultati a scuola”.
Non si creda che la mamma finlandese sia solo stata sfortunata con i suoi figli, perchè posso testimoniare che anche il mio, nella civilissima Milano, ha passato cinque anni alle elementari seduto alla stessa seggiolina per sette ore al giorno, alzandosi solo per andare a mangiare nel refettorio della scuola, perchè il suo gruppo-classe, come le maestre amavano definire i nostri bambini, era troppo agitato e non meritava di giocare anche solo per cinque minuti fuori dalla classe.
Ricordo che noi genitori venivamo convocati dalle maestre e non appena ci sedevamo ai banchetti disposti a semicerchio e la porta veniva chiusa, le due docenti cominciavano a lamentarsi. Era una brutta classe, dicevano, dove le femmine chiacchieravano e i maschi si menavano. Era un’impresa tenerli buoni tutto il giorno: mai visto una classe così incivile! Peggio i maschi delle femmine, continuavano, ma anche le femmine non scherzavano: impossibile farle tacere.
Noi genitori restavamo in silenzio con delle facce scurissime, senza sapere se buttarci a terra per scusarci dei mostri che avevamo generato o se tornare a casa e prendercela con i nostri figli, allungandogli qualche bel ceffone, oppure punendoli in modo creativo e non violento: «Niente dolci, niente cinema, stai chiuso in camera, dimmi cos’hai fatto a scuola, non lo fare mai più!».
Per carità, non dubitavo che le maestre raccontassero anche dei fatti veri: i resoconti erano realistici. I maschi di sei anni sono a volte ancora un po’ maneschi e a tutti piace chiacchierare, anche a noi adulti, figuriamoci a dei bambini! Il problema era che dopo le lugubri dichiarazioni: «I vostri figli sono i peggiori allievi mai avuti!», qualcuno dei genitori chiedeva sempre: «Voglio sapere se mio figlio è tra quelli che picchiano i compagni di classe!».
A questo punto le maestre dichiaravano che non ci avrebbero mai detto quali erano i bambini turbolenti, perché il problema non dipendeva da qualche singolo bambino, ma dall’intero gruppo-classe, un’entità che avrei sentito nominare anche in seguito, quando gli insegnanti volevano far capire ai genitori che la classe era marcia dalle fondamenta, senza alcuna speranza di redenzione: inutile prendersela con qualche allievo in particolare, se il marciume riguardava un po’ tutti.
Così tornavo a casa e interrogavo mio figlio per chiedergli: «Oggi per caso hai picchiato qualcuno?», ma lui negava e io gli credevo. Personalmente sono convinta che la situazione della classe non fosse così fuori controllo: in fondo erano solo una ventina di bambini di sei anni, ma ormai le riunioni si susseguivano tutte sullo stesso argomento: i nostri figli avevano trasformato la vita delle loro maestre in una tragedia quotidiana di cui eravamo tutti responsabili, in quanto procreatori dei piccoli persecutori.
In un’altra di quelle riunioni di autocritica in cui ci dovevamo pentire dei nostri peccati e di quelli delle creature, le maestre ci avevano spiegato che i bambini avevano due intervalli al giorno di quindici minuti, la mattina e il pomeriggio, oltre all’ora dedicata al pranzo. Durante gli intervalli i bambini non potevano mai uscire dalla classe, perché non se lo meritavano, sempre per via della loro tendenza a non volere restare immobili e silenti durante le sette ore di lezione. Poi le maestre ci spiegavano anche che “non volevano avere la responsabilità se qualcuno si faceva male”, come se questa fosse una giustificazione per le sette ore filate passate in classe dai ragazzini senza poter mettere il naso nel corridoio.
Purtroppo abbiamo passato cinque anni ad ascoltare le lagnanze delle due maestre durante quelle insopportabili riunioni, in cui dipingevano i nostri bambini come dei piccoli banditi, anche un po’ indolenti, privi di ogni curiosità, in particolare quella verso lo studio che avrebbe potuto riscattarli dalla loro natura essenzialmente criminale. Eppure in classe gli scolari erano solo una ventina, non quaranta come negli anni Sessanta, e nessuno di loro è finito a San Vittore.
Mi sono sempre chiesta quale fosse la verità. Di sicuro era difficile far stare tranquilli quei poveretti per ben sette ore di lezioni frontali, in cui le maestre spiegavano e i bambini ascoltavano, a un’età in cui si ha voglia di correre e giocare. Neanche un adulto sarebbe contento di rimanere seduto a un banchetto tutti i giorni per sette ore di fila, senza dire una parola, senza che nessuno gli chieda di esprimere la sua opinione su nulla, e sapendo in anticipo che tutto quello che farà o dirà, verrà misurato con un voto o un giudizio.
Voi lettori che siete adulti e magari lavorate in ufficio, provate a immaginare che vi si chieda di non dire una parola per tutto il tempo che restate lì. Ma non solo, ogni volta che mandate un’email ai vostri clienti o agli altri colleghi, c’è qualcuno che vi dà un voto.
Provate a immaginare che per ogni vostra singola azione compiuta mentre lavorate, vi sia attribuito un voto da uno a dieci – come nel 2007, quando andava a scuola mio figlio –, a cui sia possibile aggiungere un altro voto generale, che non dipende da qualcosa in particolare, ma solo dal vostro atteggiamento, dal vostro comportamento. Il voto di condotta. E se per caso un giorno non abbassate lo sguardo mentre il vostro capo urla: «Attento che ti do un bel quattro!», ecco arrivare anche il licenziamento: «Ti licenzio perché oggi hai preso quattro in condotta, dopo che mi hai rivolto la parola senza alzare prima la mano!».
Non credo che se qualcuno mi invitasse a ripetere le elementari, così come sono adesso, pagandomi un regolare stipendio, identico a quello che percepisco attualmente, solo per andare a scuola tutti i giorni, sarei disposta a passare cinque anni chiusa in classe, senza intervallo tra una lezione e l’altra, senza poter uscire dall’aula, guardata a vista da due adulti che minacciano continuamente di mettermi un brutto voto in condotta se provo a bisbigliare una parolina alle mie compagne di classe. Adulti molto crudeli che poi mi rimandano a casa solo dopo avermi dato dei compiti per il giorno seguente o la settimana successiva, se la lezione è di venerdì.
In ufficio o nelle fabbriche, per fortuna, vale la convenzione che nei weekend non si lavora, ma per uno scolaro delle elementari la domenica è il giorno in cui si chiude in casa con la mamma e il papà – se sono in grado di aiutarlo – a fare i compiti per la settimana successiva. Chi invece non ha i genitori in grado di aiutarli e non è uno studente superdotato, come la maggioranza, peraltro, si becca una nota tutti i lunedì per non aver fatto tutti i compiti a casa.
Le scuole dei paesi con un buon punteggio nelle statistiche internazionali, che misurano la qualità dell’apprendimento scolastico, non assomigliano per nulla a quella italiana dei giorni nostri. Riporto qualcuna delle notizie dei giornali sulle solite scuole finlandesi, sempre ai primi posti nelle classifiche europee: l’ora scolastica è di quarantacinque minuti, gli altri quindici minuti sono dedicati al gioco e i bambini possono uscire dalle classi. Le lezioni non sono frontali, ma i bambini si siedono intorno a isole rotonde alle quali si siede anche l’insegnante. Non vengono dati voti fino ai tredici anni. Non vengono assegnati compiti a casa. In tutte le classi ci sono dei computer da usare durante il processo di apprendimento.
Le nostre piccole prigioni per bambini – perché questo sono le elementari in Italia –, a cui seguono scuole medie concepite nello stesso identico modo, non sembrano dare invece buoni risultati. Basti solo un dato: in Italia i diplomati nella popolazione tra i 25 e i 64 anni sono il 62,9% contro il 79,0% dell’Europa, ed è laureato solo il 20,1%, contro il 32,8% nella Ue. A ciò si aggiunge che il fattore predittivo più importante nel determinare la probabilità per un ragazzo di ottenere il diploma o la laurea è il titolo scolastico dei genitori. Per dirla in soldoni: se prendete gli allievi di una prima elementare, e li fotografate di fianco ai genitori, avrete già una buona indicazione di chi si iscriverà all’università: solo i figli dei laureati, come aveva già denunciato don Milani nel suo “Lettera a una professoressa”.
Tutto cambia e niente è cambiato, anche nella scuola italiana.
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