Scuola

Innovare la formazione per includere con il lavoro

14 Settembre 2017

*articolo di Giulia Tosoni e Alessandro Rosina 

In questi giorni inizia il nuovo anno scolastico per otto milioni di alunni. Molti i problemi e le sfide da affrontare, vale per i singoli ragazzi che stanno costruendo il proprio futuro, ma più in generale vale per il sistema di istruzione che deve mettere in relazione virtuosa il mondo che cambia e la preparazione di nuove generazioni. Una preparazione che non può più essere solo “aggiornata” ma in grado di saper guardare e immaginare oltre. Ecco allora che le recenti affermazioni della Ministra Fedeli sulla possibilità di innalzare l’obbligo scolastico a 18 anni vanno contestualizzate entro un dibattito sempre acceso. Ci si divide da tempo fra chi pensa che l’innalzamento dell’età possa contribuire a migliorare i livelli di istruzione della popolazione e chi invece ritiene che stare sui banchi troppo a lungo possa essere controproducente per molti giovani con esigenze di confronto diretto con l’esperienza pratica. Due punti di vista diversi per rispondere ai tassi di dispersione scolastica, ancora superiori al 10% (ma oltre al 20% per i maschi in alcune regioni del Sud), e alle cifre record della disoccupazione giovanile e dei NEET (giovani né in formazione e né al lavoro).

Di fronte ai rapidi e profondi cambiamenti che sono avvenuti nell’economia e nella produzione, questo dibattito appare del tutto superato. Ovunque nel mondo si discute di come il ruolo sempre crescente dell’innovazione e della tecnologia stia trasformando il lavoro del futuro. Molti lavori scompariranno e altri ne nasceranno in un tempo molto rapido. Ci si chiede quindi quali siano le conoscenze e le competenze indispensabili per affrontare questi cambiamenti, utili per la vita e per trovare spazio nel mercato del lavoro.

La maggior parte delle analisi concordano nel considerare ormai finito il tempo della classica divisione fra sapere e saper fare e fra sapere umanistico e sapere scientifico. Molte barriere fra discipline dovranno cadere, per fare spazio a un nuovo sapere integrato, fortemente creativo e orientato alla complessità. Ne consegue che occorre mettere in discussione anche la classica divisione netta fra lavori “high skill” e lavori “low skill”. Come fa notare Stefano Micelli sul Sole 24 Ore, sarebbe assurdo pensare che il futuro di buona parte della economia e della produzione nel nostro Paese possa poggiare su forza lavoro “low skill”. Molti dei lavori del futuro, al contrario, rimescoleranno sapere e saper fare, lavori artigiani e produzioni digitali, tradizione e innovazione.

Il sistema di istruzione dovrebbe accompagnare e sostenere questo cambiamento, innovando curricula e metodologie della scuola di base e rivedendo profili e traguardi di competenze sia nei percorsi liceali che in quelli tecnici e professionali. La scelta di un percorso professionalizzante dovrebbe finalmente poter rappresentare una alternativa degna della considerazione di studenti e famiglie, attraverso una offerta di qualità e una cura particolare per la transizione verso la formazione terziaria non universitaria e verso il lavoro. Il modello a cui più spesso si fa riferimento è il sistema duale tedesco, che sin dal termine della scuola media accompagna gli studenti attraverso percorsi misti di formazione a scuola e lavoro in azienda, fino alla qualifica e all’ingresso nel mondo del lavoro.

Il modello italiano, tuttavia, presenta alcune specificità. Il primo aspetto è l’assoluta centralità data da sempre al percorso liceale e al suo sbocco naturale, l’università. La tendenza per molto tempo è stata quella di ridurre il carattere professionalizzante degli istituti tecnici e professionali, confinato a qualche ora di laboratorio dentro a un’impostazione fondamentalmente scolastica e teorica. Una seconda specificità del nostro sistema è la coesistenza delle scuole statali professionali con i corsi triennali di istruzione e formazione istituiti e accreditati dalle Regioni. Sarebbe purtroppo molto semplicistico sostenere che il problema dell’Italia siano 21 diversi sistemi regionali di formazione professionale. Il problema vero è che di veri e propri sistemi ne esistono molto pochi. Alcune Regioni sono riuscite, anche grazie alla presenza nel territorio di un sistema produttivo vitale, a dotarsi di un buon numero di enti accreditati, dotati di credibilità e autorevolezza, che erogano formazione e si raccordano in modo positivo con le aziende del territorio prima, durante e dopo la conclusione del percorso di ogni ragazzo. Nel Mezzogiorno il sistema non è mai decollato, nonostante grandi iniezioni di fondi europei, ma anche in molte altre zone del Centro – Nord il sistema duale rimane una realtà molto lontana.

Le recenti riforme legate alla legge della “Buona Scuola” hanno provato a dare risposte alla questione dell’orientamento e della transizione verso il lavoro. Gli strumenti individuati sono quelli dell’estensione dell’alternanza scuola-lavoro a tutti gli indirizzi scolastici e la revisione dell’apprendistato. L’alternanza ha coinvolto dall’anno passato un numero molto rilevante di studenti, ponendo alle scuole e alle imprese una grande sfida, anche di carattere organizzativo e gestionale, per garantire a tutti esperienze con l’appropriata valenza formativa. La novità più rilevante è l’estensione di questo strumento anche ai percorsi liceali. Si tratta, finalmente, di un riconoscimento dell’importanza per tutti – non soltanto per chi frequenta le scuole professionali – di esperienze a carattere pratico e fattivo, a contatto con contesti di lavoro e di produzione. L’alternanza scuola- lavoro, val la pena ribadirlo, è a tutti gli effetti un dispositivo didattico a disposizione delle scuole e non una vera esperienza lavorativa. L’apprendistato all’italiana, è un periodo di lavoro vero e proprio, a valle del percorso formativo.

Sebbene si tratti di strumenti utili, si evince con chiarezza che nel sistema italiano non trova ancora spazio una vera dualità, che permetta dopo i 16 anni di ottenere un doppio status, di studente e di lavoratore, dentro a un quadro definito di obiettivi formativi, di garanzie e di responsabilità. Negli ultimi anni molto si è fatto per lo sviluppo della formazione terziaria non universitaria, attraverso la rete degli Istituti Tecnici Superiori, oggi costituiti in 90 fondazioni sul territorio. Si tratta di una pista molto interessante, anche se il numero di iscritti stenta a decollare, proprio per le debolezze della formazione professionale e per lo scarso appeal di questi percorsi a confronto con le lauree triennali.

La riforma dell’istruzione e formazione tecnica e professionale contenuta nella Buona Scuola cerca di rispondere alla necessità di ricostruire un collegamento forte tra istruzione statale e formazione regionale. Se questo tentativo andasse in porto, si potrebbe tornare a discutere di politiche nazionali per la formazione professionale, per tentare, anche attraverso un forte ingaggio delle forze produttive e di quelle sociali, di innovare, aumentare la qualità e ridurre le disuguaglianze geografiche.

La sfida è ardua, soprattutto nelle aree economicamente meno vitali e prive di una formazione professionale strutturata e di qualità. Senza un buon tessuto di aziende di varie dimensioni, produzioni trainanti ed esperienze di innovazione, in presenza di alta disoccupazione e magari forte radicamento della criminalità, garantire a ogni studente una buona esperienza tra formazione e lavoro è particolarmente difficile e le speranze di un buon esito occupazionale rimangono decisamente scarse.

Fuori dalla retorica della fuga dei cervelli, infatti, si colloca la stragrande maggioranza delle decine di migliaia di giovani italiani che emigrano ogni anno dal Sud verso il Nord e da tutte le regioni verso l’estero. Quanti di loro potrebbero “scegliere” di restare, se trovassero nella propria Regione un buon sistema di formazione professionale, in grado di connetterli positivamente con la parte viva e sana delle economie locali e capace di promuoverne lo spirito autoimprenditoriale? Queste considerazioni portano a pensare che soltanto una politica di ampio respiro e di carattere nazionale può consentire alla formazione professionale di fare un balzo di qualità. Questo non esclude, anzi ben si può integrare strategicamente, con azioni su scala locale ed europea. Nella logica di coniugare innovazione e inclusione, è utile infatti sperimentare strumenti ad hoc per le aree di maggiore disoccupazione giovanile, da monitorare e valutare attentamente. Su scala europea, uno dei pochi veri successi è indubbiamente rappresentato dalla forte integrazione e dal pieno riconoscimento tra percorsi universitari dei diversi paesi. Sarebbe utile pensare a una prospettiva comunitaria anche per gli scambi e i gemellaggi fra sistemi duali di paesi diversi. Si potrebbe anche potenziare le opportunità già esistenti per la formazione professionale nella prospettiva di un sistema duale europeo, capace di fare incontrare e cooperare fra loro regioni con vocazioni economico-produttive simili. I dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, del resto, sottolineano come, per gli under 30, l’Europa può trovare un vero rilancio solo se diventa unita nelle opportunità che può offrire alle nuove generazioni.

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