Scuola

Formare i docenti: SISS, PAS, TFA e altre amenità

27 Marzo 2015

Negli ultimi anni, a partire dal ministro Berlinguer, per arrivare alla “Buona scuola”, passando dalle ministre Moratti e Gelmini, la formazione docenti ha subito molti rimaneggiamenti, ma ancora non ha una chiara struttura (per adesso sembra un mostro metamorfico, che cambia solo in apparenza).

Si è iniziato con le scuole di specializzazione biennali (SISS o, in Lombardia, che si vuole sempre distinguere, SILSIS), poi ci sono stati i TFA e i PAS  annuali (poi vi spieghiamo che cosa sarebbero), che in realtà, a causa dei soliti indicibili ritardi ministeriali, negli ultimi tempi durano al massimo tre mesi (ma i PAS sono stati avviati solo una tantum). Come lo so? Sono coordinatore di tirocinio per la classe di concorso A037 (storia e filosofia) e lo sono stato a più riprese in passato.

Ciò che non è mai cambiato è l’approssimazione con cui il ministero, pur progettando bene, realizza concretamente la formazione docenti, non mettendo le Università in condizione di operare in modo adeguato e rimangiandosi continuamente quello che ha approvato il ministro precedente (spesso, nel corso della stessa legislatura).

Il primo progetto, quello della SISS/SILSIS, era biennale. Ciò significa che gli specializzandi avevano due anni di tempo per ambientarsi, formarsi, seguire le lezioni di uno o più docenti accoglienti (si chiamano così gli insegnanti che ospitano nelle loro classi, a mo’ di tutor, gli apprendisti insegnanti) e poi iniziare, nell’ultima fase, a tenere direttamente le sue lezioni, sotto la supervisione del coordinatore (un docente normalmente in distacco parziale all’università) e del docente accogliente (a scuola).

In teoria, secondo il ministro Berlinguer (ma il discorso vale anche per le ministre e i ministri successivi), questo sarebbe dovuto essere l’unico canale di accesso alla carriera di insegnante. Poi, invece, per non scontentare troppo i precari e i sindacati, si è deciso di immettere tutti i docenti, quelli che si erano specializzati e abilitati, e quelli che non avevano né la specializzazione né l’abilitazione tramite concorso, in graduatorie comuni (concedendo qualche punticino in più (a ogni nuova legge, sempre di meno) agli specializzati, benché non cumulabile con il servizio prestato).

Siccome però i precari spesso non avevano abilitazione (ed erano quindi chiaramente discriminati rispetto a chi l’aveva, cioè i “sissini”) si è deciso di concederla a pioggia, prima con esami e corsi appositi e poi istituzionalizzando i Percorsi Abilitanti Speciali (PAS) per chi già insegnava, che così si sarebbe abilitato (dopo aver iniziato a insegnare, anziché prima, come funziona nei paesi civili), senza però fare alcun tirocinio nelle scuole (visto che già insegnava, avrebbe solo dovuto rifare gli esami universitari già sostenuti durante la laurea).

Poi, per aggiungere un’altra sigla, si è inventato il Tirocinio Formativo Attivo, che è il percorso attuale, nel quale si prevede lo stesso percorso delle SISS/SILSIS ma ridotto a un anno (che, con i consueti ritardi del ministero, si riduce a pochi mesi) di corsi e tirocinio.

Il bello di quest’ultimo percorso è che fino a due anni fa non si poteva nemmeno svolgere il tirocinio nella scuola presso la quale si insegna, oggi invece per fortuna sì (purché si insegni in una scuola statale o paritaria, ovviamente).

La buona scuola sembra voler cancellare quella che è stata l’esperienza degli ultimi anni, proponendo lauree abilitanti – così funziona in Germania, dove chi fa ricerca consegue il Magister Artium (che non prevede neanche un’ora di didattica), per poi tentare il dottorato, chi invece vuole insegnare deve ottenere il Lehramt (dove sono previste numerose ore di didattica).  Dopo le lauree abilitanti, infine, un anno di prova a scuola, seguito forse un po’ meglio che in passato, quando era una mera formalità.

Questa la storia degli ultimi anni. Ma cosa si impara durante il TFA? E come funziona il tirocinio nelle scuole?

Partiamo dalla prima domanda. In teoria, si impara la didattica, visto che i contenuti disciplinari si sono già imparati con la laurea. La realtà è però spesso diversa (ovviamente, non parlerò qui dell’Università con la quale collaboro, la Statale di Milano).

Esistono lezioni disciplinari, dove i docenti o ricercatori universitari rispiegano esattamente le stesse cose che affrontano nei loro corsi universitari, salvo eccezioni virtuose.

Esistono lezioni di didattica della disciplina, che sono per lo più un oggetto misterioso, perché sono dissociate dai laboratori didattici (tenuti, questi ultimi, da docenti provenienti dalle scuole o dai coordinatori di tirocinio, ma solo a partire da quest’anno) dove invece la tematica dovrebbe essere propriamente didattica (ma sarebbe interessante scoprire qualcosa di più sulle modalità concrete con cui si svolge, magari con un’indagine estesa a un campione adeguato che preveda anche un’analisi dei materiali di lavoro e del tempo effettivamente impiegato a tal fine).

Esistono corsi di scienze dell’educazione, dove spesso non si fa ciò che si sostiene di dover fare a scuola (didattica) ma si presentano slide in powerpoint (se lo facessimo a scuola gli studenti ci chiederebbero le slide per leggerle direttamente, guadagnando tempo, evitando di annoiarsi e di trascrivere tutto).

Infine, esiste il laboratorio di tirocinio, dove le esperienze (spesso traumatiche) degli specializzandi con le classi e i docenti accoglienti sono portate alla luce, discusse, rielaborate.

In tutto questo, si inserisce qualche nozione di base sugli alunni con disabilità (in primis, dislessia) o bisogni educativi speciali (legati a problemi economici, linguistici, sociali ecc.).

Dati i tempi ristretti con cui si deve svolgere il tutto, la maggior parte del percorso si svolge in autoformazione.

Se a questo si aggiunge che uno degli obiettivi più recenti dei vari ministeri, dal progetto ESABAC (rilascio di un doppio diploma italo-francese) alla metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning, cioè apprendimento contestuale di una lingua attraverso l’uso di essa nell’insegnamento disciplinare, per esempio, fisica in inglese), si vede che la figura dell’insegnante (il quale, come sappiamo, deve anche possedere e insegnare il senso critico, cioè insegnare a ragionare e ad argomentare in modo corretto e rispettando il Galateo della discussione), si vede che quanto viene richiesto a un insegnante è moltissimo (oltre alla salute mentale):

–       conoscere la propria disciplina in modo approfondito;

–       nozioni di pedagogia e didattica;

–       competenze metodologiche sempre più diversificate, quando non individualizzate (disabilità e bisogni educativi speciali);

–       competenze informatiche non banali;

–       competenze in una o più lingue straniere.

Ebbene, la scuola di formazione docenti lo fa? Come dovrebbe trasformarsi (anche qualora diventasse una laurea abilitante) per farlo? Sì, stiamo pensando di elaborare un progetto di riforma.

E ci aspettiamo proposte dai lettori, anche dai tirocinanti. Innanzitutto, però, esperienze concernenti il tirocinio nelle scuole: positive e negative, che ci permettano di riflettere sull’esistente, e di rispondere alla seconda domanda.

 

Techne Maieutike

 

 

 

 

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