Scuola
LETTERA A UNA PROFESSORESSA. Ha senso assumerla come modello?
In questi giorni si è parlato molto, anche con accenni critici, di don Lorenzo Milani e della sua arcinota “Lettera ad una professoressa”. Sicuramente nella migliore delle ipotesi, e mi scuso per questo tratto polemico, molti di quelli che sono scesi in campo a difesa del prete di Barbiana hanno letto superficialmente il suo scritto perchè si sarebbero altrimenti accorti della gravità di talune affermazioni in esso contenute. Proprio per fare chiarezza, a beneficio dei nostri lettori, riporto la riflessione del professor Franco Lo Piparo, ordinario di linguistica dell’Università di Palermo e allievo di un maestro indimenticabile quale fu Tullio De Mauro.
LETTERA A UNA PROFESSORESSA.
Ha senso assumerla come modello?
Si parla molto di lingua in questi giorni sui giornali e sui social. Si cominciò con la lettera dei 600 docenti sulle diffuse, troppo diffuse, scorrettezze ortografiche e grammaticali negli elaborati di molti studenti universitari. Seguirono proteste di diversi linguisti che si sono sentiti non so perché offesi. Le proteste si intensificarono dopo un articolo sul Corriere della Sera di Ernesto Galli della Loggia che identificava in De Mauro, da poco scomparso, uno dei responsabili della deriva anti-mormativa e anti-grammaticale della scuola italiana. Il dibattito viene adesso ripreso con toni altrettanto caldi dopo l’articolo di Lorenzo Tomasin (“Il Sole”, 26 febbraio) in difesa della professoressa che i ragazzi di Barbiana mettevano sotto accusa nella loro famosa lettera: «Io sto con la professoressa», titola il giornale.
È bene che se ne parli. Se ci si riscalda tanto è segno che la questione linguistica nasconde altre questioni politiche di ben altro rilievo. Dal momento che non si può dire meglio è d’obbligo citare il linguista e politico Gramsci: «Ogni volta che affiora (…) la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, ciè di riorganizzare l’egemonia culturale».
L’argomento meriterebbe un lungo saggio. Mi limiterò a fare alcune ossrvazioni su «La lettera a una professoressa» scritta probabilmente da don Lorenzo Milani ma fimata Scuola di Barbiana.
La Lettera fu pubblicata nel 1967 ed ebbe subito un enorme successo. Ero ancora studente universitario e partecipai anch’io a vari seminari sull’argomento. Fu uno dei testi in cui noi della generazione del sessantotto trovammo molti argomenti per giustificare la contestazione di quello che adesso chiamiamo establishment. Eravamo populisti ma allora il termine non esisteva. Il testo l’ho riletto, dopo mezzo secolo. Difenderlo, oggi anno 2017, mi pare impresa difficilissima oltre che sbagliata. E se lo leggessimo con la giusta e sacrosanta pietas storicistica? Vediamo.
L’obiettivo dichiarato della Lettera era la critica della scuola che bocciava e respingeva. Bocciava e respingeva soprattutto (esclusivamente? – non credo) la povera gente. «Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate» esordisce il ragazzo che dà voce alla protesta. Obiettivo nobile e sacrosanto. Sono le motivazioni teoriche e politiche a mettere su basi inconsistenti quella battaglia e a trasformarla in pretesto per politiche genericamente rivoluzionarie e anti-sistema che adesso tutti, consentendo o dissentendo, non esiteremmo a etichettare come populiste. Faccio qui un piccolo florilegio di tali asserzioni anti-sistema.
«Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo». Trovate un linguista, democratico o non democratico non ha importanza, che se la senta di sottoscrivere questa affermazione?
E ancora. «Non sta bene far politica a scuola. Il padrone non vuole». «La cultura v’è toccata farvela sui libri. E i libri sono scritti dalla parte padronale». Chi se la sente di sostenere che Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, eccetera, sono portavoce dei padroni?
In un passaggio si raggiunge un massimo di violenza, incredibile in chi si richiama ai Vangeli, equiparando la povera professoressa a un nazista: «Avete un aspetto così rispettabile. Non avete nulla di criminale. Forse qualcosa di criminale nazista. Cittadino onestissimo e obbediente che registra le casse di sapone. Si farebbe scrupolo a sbagliare una cifra (quattro, quattro meno), ma non domanda se è sapone fatto con carne d’uomo».
Si propongono ricette pedagogiche che non so come qualificare: «È diseducativo dire a un altro: “Per questa materia sei tagliato”. Se ha passione per una materia bisogna proibirgli di studiarla (sic!). Dargli di limitato o squilibrato. C’è tanto tempo dopo per chiudersi nelle specializzazioni». Ma non basta. Si mettono insieme «razzisti e finocchi». Sì, proprio finocchi. Guaradate alla pagina 102 della prima edizione da cui traggo le citazioni.
Sull’insegnamento della matematica, considerata «materia sbagliata», le precrizioni pedagogiche sono semplicemente bizzarre: «Per insegnarla alle elementari basta sapere quella delle elementari. Chi ha fatto terza media ne ha tre anni di troppo. Nel programma delle magistrali si può dunque abolire». Incredibile ma vero.
Il testo trasuda violenza gratuita: «Me all’estero a ammazzare contadini non mi ci porterete. (…) Perché dovrei ammazzarli? Mi è molto più straniera lei, purtroppo (sic!) mi hanno educato pacifista». Purtroppo?
E ancora: «Anche sugli uomini ne sapete meno di noi. L’ascensore è una macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per ignorare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in faccia e non entrare in casa». Chissà cosa avrebbe detto degli smartphone che invece consentono di vedere in faccia la persona con cui si sta telefonando.
E per finire. «Qualcuno, chissà chi, v’ha scritto perfino una grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la regione dove si diceva così. I ragazzi arrivisti accettano l’imposizione, se la imparano a mente. Gli importa solo di passare e di rifare il gioco quando saranno professori». E leggendo questa asserzione la mente mi è andata a Gramsci, a quel Gramsci che faceva della correttezza grammaticale uno stile di vita tanto da correggere, credo esagerando, gli errori di grammatica nelle lettere che moglie e figli gli inviavano in carcere dall’Unione Sovietica. E non posso non ricordare che molti, nel passato lontano e recente, si sono autoproclamati gramsciani e sostenitori della «Lettera a una professoressa». Anche il mio maestro e amicissimo Tullio De Mauro non fu indenne da questa incoerenza. (Per evitare discussioni spiacevoli e inutili, questa incoerenza la facevo notare a De Mauro nelle nostre conversazioni private e pubbliche).
Presumo di conoscere l’obiezione a quanto ho finora scritto. Nella Lettera si trova anche questa annotazione: «A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: Aver qualcosa di importante da dire o che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo». Principi corretti e che è impossibile non sottoscrivere. Ma perché hanno bisogno di essere accompagnati da quelle altre annotazioni che ho citato?
Non sarebbe più opportuno e proficuo rileggere la «Lettera a una professoressa» come documento di un’epoca con le sue molte ombre e alcune, pochissime, indubitabili luci? È così difficile esaminare criticamente il nostro recente passato?
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