Scuola

Cosa non ha funzionato in trent’anni di educazione alla legalità?

20 Febbraio 2015

“Se noi sosteniamo che l’educazione alla legalità parte dalle scuole, se  noi sosteniamo che si incomincia dai bambini, che bisogna incominciare con le nuove generazioni, se l’educazione alla legalità è incominciata nei primi anni Ottanta, e se dopo trent’anni questo paese è più corrotto di prima: che cosa non ha funzionato in questa educazione alla legalità?” Questa la scomoda domanda posta da Nando dalla Chiesa a Contromafie 2014, gli “stati generali dell’antimafia” convocati da Libera a Roma, lo scorso ottobre.

Poco più di una settimana dopo, il 9 novembre 2014, la domanda è stata ripetuta nel corso di un dibattito significativamente intitolato “Educazione” (e non “Educazione alla legalità”), presso la Fondazione Corriere della Sera di Milano (presenti lo stesso dalla Chiesa, Rita Borsellino e Calogero Gaetano Paci, già presidente della Fondazione Progetto Legalità).

Cosa non ha funzionato, dunque? E cosa continua a non funzionare? Soprattutto la riduzione dell’educazione alla legalità a uno dei tanti progetti scolastici, di cui normalmente si occupa il referente o la commissione dedicata, ma che di rado è oggetto di una condivisione effettiva e corale nella pratica didattica ed educativa. Caso particolare di questo modus operandi è anche la sua “esternalizzazione”, mediante affidamento a soggetti terzi (rispetto alla scuola), come associazioni (e meno male che esistono Libera e il Centro Pio La Torre) o testimoni: i familiari delle vittime di mafia per esempio, donne e uomini che, peraltro, in questi trent’anni hanno girato da nord a sud la Penisola, trasformando il loro dolore in un servizio preziosissimo per la comunità.

Ma la strategia sparagnina dell’appalto non funziona: i ragazzi imparano solo se hanno di fronte a loro, ogni giorno, ogni ora di scuola (“tutte le ore di scuola devono essere ore di legalità”, ha detto Rita Borsellino in quel dibattito), insegnanti che affermano i valori della Costituzione nelle parole che dicono così come nelle relazioni educative che instaurano (la parola infatti non basta, ché “l’educazione è l’esempio non programmato”, come ha affermato dalla Chiesa nella stessa occasione). E parole e stili pesano, perché la cattedra ha un significato simbolico profondissimo per i giovani. E dunque per il futuro di uno Stato. La scuola, infatti, lo sapeva bene Aristotele, è il polmone della Polis: il sistema respiratorio che le pompa sempre nuovo ossigeno, educando le nuove generazioni all’ethos della Costituzione. L’alternativa è, appunto, la corruzione. Prima dei cittadini, poi della Città nel suo complesso.

Ma da dove viene questa strategia della delega?

Dal fatto che noi insegnanti siamo già sufficientemente oberati da impegni e responsabilità non riconosciuti socialmente e mal pagati? Probabilmente sì. Ma non solo. Se infatti si riconosce che qualcosa è importante, ci si dedica anche in condizioni estreme (e di attività in condizioni estreme ne facciamo ogni giorno, perché sappiamo che sono importanti). Allora perché non ci spendiamo (tutti) nell’educazione alla cittadinanza? Mi vengono in mente due risposte: o perché, indignati da questa politica, riteniamo inutile investire tempo ed energie per provare a educare i nostri ragazzi al senso alto dell’impegno e del servizio per la comunità (ma la disperazione è il peccato mortale dell’insegnante, oltre che il viatico migliore perché la politica peggiore continui a riprodursi) o perché non la riteniamo importante. Non dico a parole (chi mai direbbe, o anche solo penserebbe, che l’educazione alla cittadinanza non sia qualcosa di importante?), ma nei fatti. Vuoi vedere che allora, in questa effettiva sottovalutazione, oltre ai motivi sopra ricordati, è in opera anche qualcosa di più radicale, di più italiano? Un fastidio per lo Stato che ha varie radici, alcune più recenti, altre più antiche (anche molto).

Ad ogni modo, qualunque sia la ragione di fondo di questo fallimento, oggi dobbiamo ripensare l’educazione alla legalità (o alla cittadinanza, o alla responsabilità tout court), nelle sue modalità operative e nei suoi contenuti. E farne un impegno collettivo della scuola italiana, cioè di ciascun insegnante e di ciascun dirigente.

Stante l’agonia etica del Paese, davvero non ci sono alternative.

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