Scuola
Conoscere e valorizzare la diversità linguistica della classe
Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Nè sa quando una simile
Orma di piè mortale10
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Ma tu di che pasta sei fatto?
Manfredi con la ricotta o mezzemaniche all’ortolana?
Sono da circa un mese sull’unità didattica che riguarda il cibo e quando abbiamo parlato di negozi e negozianti, è stato difficile spiegare loro che la pasta si vede nell’épicerie. Se i negozi potessero cantare, a Parigi intonerebbe forse le parole di Gaber: “io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. L’épicerie, traducibile con “drogheria”, è un concetto desueto in Italia, che in Francia sta però vivendo un periodo di grande rinascita. Non solo come commercio di delicatessen, ma come spazio da vivere, esplorare ed assaggiare, attirando tanto i raffinati gourmet quanto giovani bobo e hypster gastrofissati. Abituati all’idea del supermercato, con le botteghe che hanno una grande difficoltà a non arrendersi e chiudere, i miei alunni non immaginavano cosa fosse una drogheria, e che le dispensa di questo negozio fossero piene di spezie, generi alimentari e prodotti casalinghi. La lim, o lavagna luminosa, ci ha aiutato a cercare immagini che hanno chiarito il concetto.
Quanto tempo si impiega a spiegare e imparare un’unità didattica?
Solitamente il primo anno riesco a stento ad arrivare alla quinta. Il libro che i ragazzi acquistano al primo anno, lo utilizzo fino a metà della terza. Mi sono chiesta se fossi lenta. In realtà l’approfondimento e la minuzia con cui spiego parole, funzioni comunicative, grammatica, sono per lo più apprese e metabolizzate dalla maggior parte della classe.
In classe si respira un tempo diverso, che può apparire lento, è invece il tempo dell’approfondimento. Nel tempo dell’usa e getta, in classe non si getta mai nulla, ogni apprendimento è propedeutico a quello successivo.
Spesso sono solita comparare i termini con altre lingue: il napoletano, il francese, l’inglese. Quando si incontra il verbo “drainer” a proposito di un fiume che attraversa un territorio, spiego loro che equivale al drenare di liquidi che tante ragazze, attente alla linea, fanno usando tisane o riducendo l’apporto di sale. Mi riferisco all’inglese to be on sale, essere in vendita, Il verbo essere lo ritroviamo nel presente progressivo di entrambe le lingue.Spiego che la parola “souvenir” che loro identificano con “regalino”, in realtà deriva da sovvenire, ricordare, perché il regalo è l’atto conseguente il fatto che ci siamo ricordati di una persona. I verbi “pense” e “depense”, pensare e spendere, che si ripropongono puntualmente nel dire che la Senna divide Parigi in due parti, vengono accompagnati dalla mia osservazione che l’Omm’ e panz’, omm’ e sustanz’ . ‘ ‘ “Uomo con la pancia, uomo di sostanza”. Il verbo “se coucher”, corrisponde al napletano va t cocc.. mi riferisco al voulez vous cuchez avec moi del Lady Marmelade, e, sempre afferente all’area semantica culinaria, faccio notare che “cerise”, ciliegia è simile a “cerase” in napoletano. Al presentarsi dell’espressione “Qu’est qui se passe”, qualche alunno diligente, deformato dalla mia mania di spiegare le parole, mi ha sorpreso dicendo che equivale al napoletano “che e passat”. Girare è “turn” sia in francese che in inglese, mentre “virage”, giro, è simile a “virata”, il giro su se stesso che fai in piscina. “Tranche” corrisponde a fetta, come quando diciamo un trancio di pizza, un “morceau”, un pezzo, un morso. Alla parola “pressing”, solitamente i maschi lo abbinano al calcio, spiego che è stiratura, perché il ferro da stiro agisce come una pressa, immancabilmente lo abbino alla parola fretta in napoletano “vac e press”. Press è anche la stampa in francese.
Alla parola “carrefour” che i ragazzi identificano col supermercato, spiego che è in realtà significa “incrocio” poiché, i corridoi paralleli del supermercato che si incontrano o ad un banco salumeria o alle casse, simulano la struttura di un incrocio stradale.
Attribuisco alle parole un peso fondamentale, la quantità e la qualità di quelle usate definiscono la persona che siamo e quello che rappresentiamo, non come in una farsa, ma come persone capaci di educare e soprattutto lasciare in bagaglio ai nostri alunni, che sono altro da un pubblico pagante, sono il motivo per cui l’insegnante svolge a casa tanto lavoro sommerso che nessuno vede. Apparentemente sono 18 o 24. Dei numeri che non dicono nulla sulla fatica e il lavoro sodo che ciascuno di noi, in ogni ordine e grado di scuola, svolge.
Come si salva una lingua? Per usare un’espressione napoletana direi essendo “un tale e quale”, dove per “un tale” non si intende uno qualsiasi, ma una riproduzione esatta, una fotografia, di ciò che si predica. La lingua è verbo, è azione. Siamo ciò che diciamo nel momento in cui facciamo ciò che pronunciamo.
Non si può dispensare consigli e poi esimersi dalla coerenza, dall’onestà, valori che sfuggono alla logica del mercato. Immaginate se un alunno il cui rendimento è bassissimo, sfacciatamente mandasse il padre ad accattivarsi il favore di un insegnante, pregandolo affinché si promuova il figlio. Quale sarebbe la reazione dell’insegnante che oltre ad una deontologia professionale deve rendicontare del suo operato alla classe? La stessa classe a cui ha predicato per anni il valore della serietà, dell’impegno. La scuola istruisce ed educa, l’educazione è pubblica quando non si nasconde dietro posticci, finte, simulazioni. Il rigore morale non è un abito che si cambia all’occasione, è l’insieme delle esperienze significative che si è vissuto insieme ai propri alunni, è un risultato sperato usando il fair play, è un obiettivo raggiunto, concertato insieme. Del resto “fessa”, participio passato del verbo fendere, è un’apertura, una feritoia, una lesione. L’apertura all’altro, richiede la capacità di entrare in contatto, capire i suoi bisogni, aiutandolo a essere ritratto fedele di quanto quotidianamente esprime.
La scuola, allora, è una seconda casa perché è speculare al luogo in cui cresciamo, luogo in cui il profitto non avviene a spese di, è una seconda casa nella misura in cui è il posto dove abito e l’abitare è una dimensione dell’essere. Un luogo in cui le persone che la animano si sentono al sicuro, dove ci si emoziona, si piange e si ride insieme, si gioisce per il successo di un amico, dove non si baratta la dignità e dove lo stallo è solo un ritmo di procedere.
Nella scuola non ci sono gerarchie, o plafond de verre alla francese. Un concetto apparso negli Stati Unti alla fine degli anni settanta che si rifaceva a quanto era stato già trattato nel film Elia Kazan, “Il Muro Invisibile” nel 1947. Concetto che ebbe ampia diffusione nel 1986 con l’uscita di un articolo pubblicato nella sociologia del lavoro e nelle scienze di gestione per studiare la segregazione verticale che costringe le donne nella loro carriera.
In foto: Marcello Dudovich
Esposizione nazionale biennale d’arte, Napoli
maggio-ottobre 1921, Palazzo Reale
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