Scuola
Condannarsi a essere senza storia
Pur essendo preparati al peggio, non si può fare a meno di deprimersi leggendo, nei Materiali per il dibattito pubblico sulle Nuove Indicazioni per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo di istruzione che il governo ha diffuso, l’affermazione che “Solo l‘Occidente conosce la Storia” con la quale si apre la sezione dedicata, appunto, all’insegnamento della storia. Sia chiaro: da questo governo non ci si aspettava nulla di meglio, ma è davvero triste dover constatare che nel terzo decennio del secondo millennio si sia ancora a questo punto.
Non c’è una sola riga delle pagine dedicate alla questione che non appaia viziata da superficialità e pigrizia intellettuale, due cose che la scuola dovrebbe combattere più di qualsiasi altra. Naturalmente non negano, gli esperti guidati da Galli della Loggia, che anche qualche altro popolo abbia raccontato gli eventi mettendoli in successione, ma solo l’Occidente, assicurano, ha creato la Storia con la maiuscola, riuscendo a pensare i fatti “nella loro origine, nei loro nessi, nelle loro conseguenze”. Che è come dire che solo l’Occidente possiede la ragione, se ragione è cogliere i nessi di causa ed effetto.
Raccontiamo agli esperti una storia.
Sima Qian 司馬遷 ha avuto una vita tragica. Nato circa nel 145 avanti Cristo, figlio dello storico Sima Tan, cui tra l’altro si deve una prima classificazione delle scuole filosofiche cinesi, divenne Custode di palazzo dell’imperatore Wudi ma cadde in disgrazia in seguito a una spedizione militare contro una tribù del nord, terminata con una pesante disfatta. L’imperatore accusò della disfatta il generale Li Ling e condannò a morte Sima, colpevole di aver preso la sua difesa. La condanna fu convertita poi nella pena della castrazione e del carcere.
Sima fu travolto dall’orrore, ma continuò a lavorare alla sua opera storica, con il senso di una missione che andava al di là della sua persona; la sua opera, lo Shjì 史記, è un capolavoro di ricostruzione, ma anche di ragionamento storico, e resterà un modello per gli storici cinesi. “Ho esaminato le imprese e gli eventi del passato e ho indagato i principi che stanno alla base del loro successo e fallimento, della loro ascesa e decadenza, in centotrenta capitoli”, scrive in un testo autobiografico. Continua raccontando che prima di completare l’opera è stato travolto dalla disgrazia e spiega, con la serenità di chi sa di aver fatto il suo dovere: “Poiché mi rammaricavo che non fosse stato portato a termine, accettai la pena estrema senza rancore” (B. Watson, Ssu-ma Ch’ien, Grand Historian of China, Columbia University Press, New York and London 1963, p. 66). Abbiamo qui un grande storico, ma anche un grande intellettuale e un grande uomo.
È una storia triste, quella di Sima Qian, ma anche bella. È la storia di un uomo che è stato travolto dalla storia, ma che crede nell’importanza del lavoro intellettuale, della memoria, del ragionare sulle vicende umane; e che a questa fiducia affida la sua umanità. C’è in questa storia, si può dire, tutto il profondo senso in primo luogo umano del lavoro dello storico. Ma è una storia che lo studente italiano non conoscerà mai, perché chi pensa e progetta la scuola italiana non ha l’umiltà di guardare oltre i confini dell’Occidente.
Esistono, poi, questi confini? Esiste un Occidente che si possa separare da tutto ciò che lo circonda? Tra il secondo e il terzo secolo Diogene Laerzio, nato probabilmente in Cilicia, nell’attuale Turchia del sud, racconta la storia della filosofia nelle sue Vite dei filosofi. Che si aprono con una lunga analisi di una questione che oggi appare sorprendente: la filosofia è nata in Grecia o è stata importata da altre culture? Non c’è manuale di filosofia che oggi non spieghi che la filosofia è cosa solo occidentale e altrove c’è al più spiritualità o misticismo. Diogene Laerzio invece respinge la tesi di una origine straniera della filosofia, ma non prima di averla discussa a lungo; segno che non era, per lui e per chi lo leggeva, una tesi fantasiosa.
E in effetti non è possibile comprendere la filosofia greca senza considerare la fitta rete di relazioni culturali, oltre che commerciali, che legavano il mondo greco all’Africa del nord ed all’Oriente vicino e lontano. Pitagora, il primo a definirsi filosofo, è vissuto nello stesso periodo in cui in India fioriva la scuola Samkhya; e il problema delle due scuole è esattamente lo stesso: liberare l’anima dal ciclo delle rinascite attraverso la conoscenza della realtà. Ma profondi sono anche i legami tra lo scetticismo greco di Pirrone e il movimento indiano degli shramana. Eccetera.
Una cosa che uno storico scopre abbastanza presto è che non è possibile comprendere quello che accade qui senza guardare altrove, ed è un altrove spesso lontano. L’arrivo della carta ha rivoluzionato l’Occidente come poche altre cose. Ma come è arrivata? Come è noto, sono stati i cinesi a inventare la carta. I musulmani hanno catturato alcuni artigiani cinesi nella battaglia di Talas (751 d.C.), e così la carta è giunta nel mondo islamico. E da qui nel resto dell’Europa. Dobbiamo ai cinesi e ai musulmani una rivoluzione tecnologica senza la quale non saremmo quello che siamo.
Non c’è nulla che si possa comprendere realmente senza avere uno sguardo globale. Isolare un pezzo di mondo e pretendere di farne la storia vuol dire condannarsi a non avere, di fatto, una vera consapevolezza storica. E se la consapevolezza storica è un pezzo della nostra umanità – “Sono uomo, nulla di umano considero a me estraneo”, affermava Terenzio, che da romano aveva lo sguardo più ampio di tanti ottusi difensori della romanità e del latino –, questo sacrificio della storia autentica sull’altare del nazionalismo, per il quale qualche storiella idiota su quanto siamo migliori degli altri è più che sufficiente, avrà conseguenze significative sulla formazione morale delle nuove generazioni.
Foto di Ferran Feixas su Unsplash
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