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Scuola
Addio ad Ermes De Mauro: “Ciao Prof., quante cose mi hai detto ogni giorno che continuo a ripetere tra me…”
Un ricordo dell’ Uomo e dell’ Intellettuale, faro della cultura brindisina e pugliese, venuto a mancare all’affetto di centinaia di studenti ed amici che lo hanno amato per la sua grande onestà e pienezza spirituale
“Nihil sine magno labore vita dedit mortalibus”, scriveva Orazio nelle Satire.
Tradotto ad litteram significa: “Nulla la vita concede agli uomini senza grande sforzo“. Scrivere, quando ci colpisce un lutto intimo e profondo comporta uno sforzo, grande, appunto. Forse immane, ma è il fiume del dolore e del cuore che ci trascina in piena verso acque più tranquille e ristoratrici. Per riprendere il nostro corso naturale, cristallino e cullarlo con le dolci nenie del ricordo. Si può scrivere per incensare con formule di circostanza, pur doverose, alcuni protagonisti della nostra vita, magari perdendoci negli encomi melensi che però poco riguardano la luce di un’anima che arginare diverrebbe impossibile, in viaggio verso nuove dimensioni. Certamente meno sofferte di alcune parentesi terrene. Come tutti coloro che scrivono non solo per mestiere, ma anche e soprattutto per una esigenza insopprimibile di stare nel mondo e con il mondo, confrontarsi con il lutto dei pilastri fondanti della propria formazione umana e culturale, rappresenta una esperienza travagliata, ma inevitabile. E così, eccomi qui a scrivere di te, Carissimo Prof. Ermes De Mauro. L’incredulità di saperti in mare aperto, di aver attraversato l’Orizzonte, e il nodo allo stomaco che mi attanaglia da questa mattina, appena appresa la notizia della tua scomparsa, si vanno acquietando lentamente, se focalizzo il mio pensiero sul peso specifico dello scrigno zeppo di emozioni ed insegnamenti di inestimabile valore che mi hai donato. Lo hai riempito pazientemente, per piacere e non per dovere. Gli anni inquieti del Liceo, tra una versione di latino ed una chiacchierata sui grandi temi della Vita, mentre mi seguivi senza imposizioni, sono trascorsi, anzi volati, con le tue braccia aperte ad accogliere, mai a colpevolizzare i fallimenti tipici di una età indecifrabile. Hai seminato dentro di me germogli di libertà, di lealtà, di umiltà e gratitudine, facendomi notare senza troppi convenevoli quale dovesse essere le mia strada. Mi hai mostrato, non solo tra i banchi, ma nella quotidianità, perché non abbassare la testa, mai. Il valore della onestà intellettuale, quella che non rende manipolabili e ricattabili da nessuno. Quella dignità che riconoscevi e tributavi a tutti, soprattutto ai dimenticati. Ai più semplici. Agli invisibili. Agli animali. La mia scuola accanto a te non è stata un accumulo di regole di latino e greco o di passi sterili di letteratura italiana, bensì materia viva. Incandescente. Indelebile. Ho scoperto quanto nei tuoi adorati Dante, Manzoni, Leopardi e Pascoli ci fosse il Calvario del genere umano. Un genere umano che, al tramonto della vita, necessita sempre e comunque di quella pietas cristiana che mal si sposa con la compassione miserabile degli “odiatori professionisti”; mi sono rifugiata e perduta mille volte, nel tuo tono di voce profondo, autorevole e potente, mentre mi parlavi dello strazio di Foscolo e del suo isolamento rispetto alla folla; ho imparato che il Carducci nel suo “Pianto antico” era un padre annientato dalla morte di un figlio fanciullo e che urlava al Cielo di consolarlo. Che il Pascoli era dovuto divenire uomo in fretta per fare fronte ad un destino crudele che lo aveva privato degli affetti familiari anzi tempo. Che nella “Città Vecchia” di Umberto Saba” c’era il genio incompreso di un paroliere come pochi. Quale fosse la definizione di endecasillabo giambico, o alcaico e via dicendo. Cha nella tua imprescindibile metrica, si celava tutta la poesia di un sogno, mai tramontato. La musica del cuore che nascondeva la storia di chi aveva abitato questa Terra prima di noi.
Ed allora, ti rivedo alla tua scrivania, anche negli anni dell’Università e fino a qualche mese addietro, mentre di anni ne sono trascorsi davvero un bel po’: dal ginnasio ad oggi ed i miei capelli si sono ingrigiti e le mie rughe di quarantenne cominciano a solcare il viso ed il cuore, che togli i tuoi occhiali per leggermi da vicino versi del Paradiso e dirmi nel nostro idioma mesagnese “Sienti qua, ntra Dante nci stai tuttu tuttu tuttu”. Ti rivedo mentre leggi i miei articoli e mi chiami il giorno dopo per farmi i complimenti, suscitando un imbarazzo cosmico in me. Sentire che la mia umilissima penna trovava il tuo favore, è stato il regalo più gradito che potessi farmi. Le nostre passeggiate sotto braccio, al posto del bastone, con la tua eleganza sempre vivida, dopo aver bevuto il caffè di prima mattina ed aver fatto due chiacchiere; le nostre lunghe telefonate mentre mi parlavi dei tuoi acciacchi, con l’orecchio teso ad ascoltare i miei affanni, le mie paure o incertezze. I pomeriggi assolati che permeavano dalla finestra del tuo mitico studio. Mi hai insegnato a diffidare sempre degli ipocriti, degli invidiosi e dei moralisti. Ed io ho cercato di fare del tuo insegnamento, una regola di vita. Mi hai permesso di parare i colpi del destino, di schivare le trappole per quanto è possibile dello squallore umano. Sapevi come strigliarmi, senza umiliare. Mai. Sapevi come far risplendere il cuore di ogni tuo studente, metterne a nudo le attitudini ed accompagnarne le fragilità. Chi ti etichetta solo come un fine letterato, sbaglia. O forse non ha avuto l’enorme privilegio di sentirti accanto ed esserti accanto, ammirando la tua essenza. La sincerità di essere ciò che si è, con tutto il proprio bene ed il proprio male, comporta un prezzo da pagare salatissimo. E tu mi hai messa in guardia. Ancora, come dimenticare le tue penne stilografiche meravigliose, con cui eri solito scrivere lettere, appunti, traduzioni, messaggi augurali. Ci siamo visti qualche mese fa, mi hai cercata spesso dopo, ma io ero impossibilitata fisicamente a muovermi per venirti a trovare, non potevo prevedere che ci saremmo salutati così. O forse, più francamente, intimamente, non sono riuscita a rassegnarmi all’inesorabile scorrere del tempo che ti aveva provato, ma mai sconfitto. Era un dolore troppo grande, incrociare il tuo sguardo stanco e le tue mani tremanti. Per cui, tu sei ancora tra i banchi del Liceo Classico Marzolla di Brindisi, in quello di Gioia del Colle ed ovunque hai insegnato che, la bellezza e l’imprevedibilità della vita non si studiano sui libri, ma si contemplano grazie alla poesia ed alla letteratura. Alle passioni. Al sogno. Sei ancora seduto dietro alla tua scrivania storica, di legno massiccio nero laccato, accanto ai tuoi giornali, con il capo chino e leggermente inclinato, a riflettere su come tradurre in modo efficace qualche verso di uno dei tuoi autori preferiti, magari poco chiaro e che ti preme approfondire. Per te essere ammalato non era tollerabile, senza i tuoi libri non potevi sopravvivere. Sei ancora con la tua sciarpa a quadri lungo il collo, i tuoi cappotti avvolgenti e la tua sigaretta poetica a varcare la soglia di qualche libreria alla ricerca dell’ultimo saggio su Dante. Presente come pochi, non hai mai lesinato la tua vicinanza in ogni avvenimento significativo della vita dei tuoi studenti o amici. Voglio salutarti così, senza salutarti, con una pagina di Quintiliano a te cara: “Orbene, innanzitutto il maestro assuma verso gli alunni la disposizione d’animo di un padre e ritenga di succedere al posto di quelli, dai quali gli sono affidati i figli. Non abbia difetti, né li tolleri. La sua severità non sia cupa, né esagerata la cordialità, perché da quella non derivi il risentimento, da questo il disprezzo. Faccia ripetutamente discorsi sull’onestà e il bene; infatti, quanto più spesso avrà dato consigli, tantopiù raramente punirà; per nulla irascibile, non nasconda i difetti che dovranno essere corretti; sia chiaro nell’insegnamento, resistente alla fatica, costante, ma non eccessivo. Risponda volentieri alle domande che gli vengono rivolte, ma di sua iniziativa le faccia a chi non gli chiede nulla. Nell’apprezzare le esercitazioni degli alunni non sia gretto, ma neppure esagerato, poiché il primo atteggiamento genera la noia dello studio, l’altro trascuratezza. Nel correggere gli errori non sia troppo intransigente e tanto meno offensivo; questo a volte allontana molti dal proposito di impegnarsi nello studio, perché alcuni rimproverano come se odiassero. Ogni giorno dica agli alunni qualche cosa, anzi molte cose, che essi poi possano ripetere tra sé… “.
Ciao Prof., quante cose mi hai detto ogni giorno che continuo a ripetere tra me…
Con tanto affetto.
Una tua studentessa per sempre grata.
Chiara
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