Scuola

Chi protesta contro la buona scuola attacca un uomo di paglia

8 Luglio 2015

Sì, perché, non essendoci nulla, come si può vedere per esempio qui e qui e qui, a parte l’assunzione di tanti precari e qualche dichiarazione condivisibile (merito, ruolo dei presidi e degli organi collegiali entrambi riaffermati, importanza degli studenti, impostazione basata sulle competenze ecc.) ma inefficace o generica, non ha alcun senso scioperare attaccando:

1)    la supposta “aziendalizzazione” delle scuole;

2)    la scuola “classista” che sarebbe prevista dalla riforma;

3)    un presunto ruolo da preside “padrone”;

4)    il ruolo dei privati che influenzerebbero la formazione in modo negativo.

Partiamo dall’ultimo punto: se i privati (aziende, il territorio ecc.), come ora fanno, finanziassero corsi o attività che il collegio docenti, il preside, il consiglio di istituto giudicano necessarie alla scuola ma non possono finanziare (per i noti motivi: tagli), stendiamo i tappeti rossi invece di demonizzarli. Magari accadesse. Perché rifiutare gli aiuti e poi chiederli allo Stato che è stato spremuto (da assistenzialismo elettorale e sperperi finiti in corruzione) fino a distruggerlo?

Sul primo punto, a parte il fatto che bisognerebbe ancora dimostrare che le aziende non funzionano bene e che non raggiungono i loro obiettivi, che sono, si spera per loro, il guadagno e non il fallimento, diciamo semplicemente che se una scuola dovesse venir valutata sulla base di ciò che insegna agli studenti sarebbe per lo più da dichiarare fallita. All’occasione si potrebbe riaprire una discussione su questo punto, ma, com’è noto sulla base delle valutazioni oggettive ed esterne INVALSI o OCSE-PISA, queste sì pensate contro la disuguaglianza e l’esclusione scolastica e non a caso rifiutate da molti degli scioperanti che di scuola ne vorrebbero una proprio cattiva (e in mano a loro), le valutazioni delle scuole italiane non sono, in linea generale, molto positive, a parte singole eccezioni o realtà regionali più d’eccellenza. Sarebbe come dire: valutare gli studenti (e i docenti) è classista, quindi tutti sullo stesso livello, cioè basso, e via andare. E nessuno ci venga a dire che noi non siamo i migliori docenti del mondo. Ma chi crede ancora alle favole?

Sul secondo punto, rispondiamo solo che la scuola, attualmente, è molto più classista di quanto possa prevedere la riforma, se definiamo il termine “classista” in modo rigoroso, e cioè se parliamo di esclusione (leggi: bocciatura) dei deboli, di chi ha bisogni educativi speciali e, per esempio, degli alunni stranieri (non proprio una minoranza, nella popolazione scolastica italiana), anche se si sta lavorando per diffondere competenze serie in tutti i docenti in servizio.

Sul terzo punto, l’unica cosa che si può contestare è la possibilità che avrebbe il preside di scegliere i docenti tramite la chiamata diretta (resterebbe da dimostrare che un preside competente non sia in grado di farlo e che chiamerebbe per forza parenti e amici e amici degli amici), ma attualmente può farlo, se mancano docenti in graduatoria. Questo limite resterebbe anche nella versione della buona scuola, e le chiamate sarebbero limitate alle materie introdotte previo accordo con gli organi collegiali, cioè consiglio di istituto (che riunisce rappresentanti dei docenti, dei genitori, degli studenti, amministrazione e presidenza) e collegio docenti. Se, invece, il problema è che il preside dovrebbe valutare i neo assunti, a parte il fatto che lo fa già ora, ricordiamo che è previsto un comitato di valutazione in maggioranza composto da docenti… semmai, il problema è proprio il contrario di quanto si dice.

Cosa manca, nella buona scuola? Un serio percorso di formazione per i docenti, che non nascono docenti ma devono imparare sia i contenuti da insegnare che i metodi. Ma su questo… silenzio assoluto. Che vada bene così?

 

Per concludere, chi sciopera, chi protesta, lo fa contro le sue allucinazioni, visto che nulla di quanto si sostiene è davvero realizzato nella riforma, che, anzi, fa poco o nulla di innovativo.

Ma allora perché le proteste? Ripetiamo: ciascuno qui combatte contro i suoi fantasmi, rievocando una lotta di classe che è scomparsa (ma ha avvelenato il linguaggio anche al di fuori dell’ambito d’uso marxista originario, con termini come  “padrone”, “classismo”, “aziendalizzazione” ecc.), uno spregio del capitalismo e dell’impresa, nonché delle stesse istituzioni scolastiche che paradossalmente si sostiene di rappresentare “dal basso”.

E, forse, come sulla questione greca, in questi ultimi mesi si assiste a una lotta fratricida tra una sinistra di rivoluzionari fuori tempo massimo (e pasticcioni in tutti i campi, ahimé, anche in quello dei diritti al lavoro, su cui si sarebbe potuto dire tanto, mentre le protesta rallentano decine di migliaia di assunzioni di precari) e una sinistra riformista che non osa fino in fondo farlo, stretta tra la Scilla della rivoluzione (grillina o greca che dir si voglia) e il modello liberale abusato da movimenti populisti. Due estremismi che bloccano il paese e che, ancora, ideologizzano questioni che dovrebbero essere invece discusse senza pregiudizi, per rimettere in modo l’istruzione.

E invece no, le proteste di questi giorni sono la più bieca chiusura di fronte a necessità urgenti, il rifiuto per partito preso di aprire una discussione (tra l’altro, tale discussione, amplissima come mai prima d’ora, c’è già stata nella fase preparatoria). Il risultato, in definitiva, è la costruzione di un nemico che non esiste.

Ci resta una domanda: a chi giova? Non lo sappiamo, ma sappiamo a chi non giova: ai docenti, agli studenti, al nostro futuro.

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