Scuola

Cambiamo la scuola o la politica sulla scuola?

2 Marzo 2020

Presa Diretta è una delle migliori trasmissioni di informazione in onda sui canali televisivi: costituisce una felice eccezione all’interno di un panorama generale caratterizzato da un conformismo dilagante. E’ una delle poche che non si rifiuta di affrontare temi “difficili”.

Lo scorso 28 febbraio è andata in onda una puntata dal titolo “Cambiamo la scuola”.

Come sempre il livello della trasmissione è stato di tutto rispetto, con servizi approfonditi e interviste a importanti protagonisti.

Tuttavia osservando la puntata con gli occhi di chi non solo lavora nella scuola da decenni, ma ne fa anche oggetto della propria riflessione e azione politica, ci è sorta una considerazione che vogliamo qui condividere, e che ha a che fare con il panorama del dibattito sulla Scuola italiana negli ultimi venti anni.

In estrema sintesi, il dibattito prevalente sulla scuola, oggi in Italia, è banalmente costretto in una disputa fra chi vorrebbe conservare la scuola così com’è e chi vorrebbe migliorarla. Questa banalizzazione trova spazio, ad esempio, nella contrapposizione autonomia si/autonomia no, conoscenze contro competenze, lezione frontale contro tutte le altre metodologie didattiche, nuove tecnologie contro libro di testo.

Si tratta di una banalizzazione della realtà, che, volutamente, non tiene conto di un’altra posizione, molto presente fra i docenti e nei corpi intermedi che la rappresentano, che è riconducibile alla seguente semplice affermazione: la scuola così com’è ha grossi problemi, molti di questi problemi nascono proprio dagli errori ideologici presenti nelle politiche sin qui seguite e quindi occorre non solo cambiare la scuola ma occorre cambiare anche le politiche che sulla scuola si sono fatte negli ultimi anni.

Questa posizione, di reale cambiamento della scuola al servizio del Paese, viene volutamente sottaciuta in quanto andrebbe a contrastare la logica di aziendalizzazione e di asservimento al mondo del lavoro che negli ultimi venti anni ha ispirato tutte le politiche sulla scuola.

Veniano adesso ad argomentare quanto detto analizzando la trasmissione andata in onda.

“Presa diretta” segue uno schema pienamente condivisibile: si individua un “problema” e si mostrano scenari alternativi in cui si evidenziano possibili strade di risoluzione del problema.

I giornalisti che curano ciascuna puntata, ovviamente, non essendo degli addetti ai lavori, cercano di informarsi, per ciascuno degli argomenti che trattano, rivolgendosi a quelli che sono ritenuti gli interlocutori più attendibili.

  • Nel caso della trasmissione sulla scuola:
    si sono scelti alcuni indicatori statistici, i test OCSE/PISA, per evidenziare delle oggettive gravi carenze nella preparazione di base degli studenti della scuola italiana,
  • si è scelto un modello di scuola, quello finlandese, come esempio virtuoso a cui attenersi,
  • si sono intervistati alcuni esponenti che “contano” all’interno del mondo della scuola per farsi dire cosa non va e cosa bisogna fare.

Alcuni di questi testimonial hanno portato delle osservazioni pienamente condivisibili, parlando del significato di alcune scelte metodologiche o tecnologiche piuttosto che altre.

Ad esempio l’osservazione fatta dalla professoressa Tiziana Amati, docente di lettere del Liceo Fermi-Monticelli di Brindisi, circa lo sviluppo del pensiero critico che si riesce a perseguire con il metodo del “debate”, ci trova pienamente d’accordo. Ovviamente siamo consapevoli di come certe metodologie didattiche non possono essere utilizzate a prescindere dai contenuti: non si può dibattere di ciò che non si conosce, quindi i contenuti sono importanti, come del resto faceva osservare uno studente intervistato che dichiarava di aver studiato tantissimo per preparare il suo intervento nel “debate”. Il debate è uno strumento che motiva, stimola gli studenti, ma non si sostituisce assolutamente allo studio, alla necessaria acquisizione di contenuti su cui dibattere. Ecco un lampante esempio di come le conoscenze siano la necessaria base per acquisire le tanto sbandierate competenze.

Interessante anche quanto detto dalla professoressa Maria Ranieri, docente di Tecnologie educative presso l’Università di Firenze e sicuramente una delle maggiori esperte italiane (e non solo italiane) nel settore, che ha, giustamente, osservato come le tecnologie e le metodologie educative in realtà siano solo un pretesto per parlare di didattica, e che alla fine le scelte dipendono dall’azione concreta del docente, che deve saperle utilizzare per costruire percorsi densi di significato per lo studente. E, anche se non è emerso dalla intervista, va sottolineato come la professoressa Ranieri metta sempre in guardia, nei suoi scritti e nei suoi interventi, dai “tecno-entusiasti” così come dai “tecno-fobi”.

Anche gli stessi esempi della scuola finlandese (della quale comunque andrebbero evidenziati anche alcuni limiti che cominciano ad affiorare) sono emblematici: la docente finlandese intervistata, di fronte alla domanda “quindi voi avete abolito i libri” risponde secca “no, noi i libri li usiamo eccome!”.

In sostanza gli esempi mostrati hanno avuto il pregio di illustrare dei possibili scenari da cui prendere spunto per il necessario e ormai non più procrastinabile adeguamento della scuola italiana ai bisogni di una società profondamente trasformata, investita da un processo di globalizzazione che ha cambiato il concetto di cittadinanza, di lavoro, di democrazia. In questo senso ci troviamo anche a concordare con quanto Roberto Ricci, direttore delle prove INVALSI, dice affermando che una scuola realizza l’uguaglianza e l’inclusione solo quando “consente al maggior numero possibile di studenti di raggiungere risultati buoni” e che la vera sfida è “mantenere l’asticella alta”. Concordiamo meno quando però i test INVALSI invece di venire utilizzati come strumento per indagare sulla situazione della scuola e suggerire direzioni di intervento, vengono utilizzati per valutare gli studenti o, peggio ancora, i singoli istituti scolastici.

Poi, dopo aver visto tanti begli esempi, la giornalista si pone una domanda: ma perché nella scuola italiana non si riescono a introdurre massivamente queste metodologie? Perché i docenti italiani, se non in minima parte, non accettano di innovare?

Questa è la domanda cruciale della puntata: ci si chiede quali sono le ragioni della situazione attuale e quali le direttrici per il cambiamento.

La domanda viene rivolta non ad un ampio ventaglio di soggetti che avrebbero potuto dare una varietà di risposte, ma esclusivamente al dott. Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, il quale in buona sostanza afferma che fra i docenti italiani “non c’è questa abitudine ad una formazione continua che debba essere obbligatoria e quindi ci si ritrova con dei docenti anche molto preparati ma che sulle nuove tecnologie sono un po’ indietro”. E’ interessante notare l’accento che viene dato dal presidente dell’ANP: i docenti saranno anche preparati, ma non sanno usare le nuove tecnologie. Questa affermazione significa che una delle principali cause di arretratezza della scuola italiana è nella non conoscenza delle tecnologie, e non nella preparazione dei docenti!  Francamente contrasta con quanto detto dalla professoressa Ranieri, che di queste cose se ne intende, circa il significato delle tecnologie e il ruolo centrale del docente.

Lo stesso concetto viene ribadito quando la giornalista pone la domanda circa ciò che il ministero dovrebbe fare per sostenere i docenti. Il presidente dell’ANP afferma che “la legge 107 ha introdotto la cosiddetta carta del docente per cui ogni docente ha a disposizione 500 euro all’anno per l’aggiornamento culturale, il problema è che sono utilizzabili anche per andare a teatro, che è una buona cosa ma non è così utile per la loro preparazione pedagogica e didattica”. Nel prosieguo dell’intervista il dott. Giannelli ribadisce concetti che già conosciamo bene: la chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti, il premio per motivare gli insegnanti migliori, ed altri armamentari tipici della politica di questi ultimi vent’anni, i quali, più o meno, hanno mostrato tutti la loro fallacia.

Il senso della puntata andata in onda è proprio questo, il contrasto fra i buoni esempi prospettati e le pessime soluzioni (politiche) proposte.

I migliori esempi che vengono presentati nella puntata di Presa Diretta ci mostrano come la scuola sia un delicato processo di formazione, in cui non esiste un “prodotto standard” ma tante persone, individui, che devono crescere ed essere valorizzati ciascuno sulla base della propria unicità. Questa dovrebbe essere la scuola che rimuove gli ostacoli e include tutti!

Nonostante ciò da parte di chi detta la politica al ministero ci si ostina a voler pensare alla scuola come un luogo in cui tutti devono insegnare come la moda del momento impone, dove tutti gli studenti devono fare le stesse cose, dove non esistono i “consigli di classe”, che lavorano in team, concordando strategie sui loro studenti veri, ma esistono solo “singoli docenti” da dividere in buoni e cattivi, docenti che il dirigente deve poter assumere in base a curriculum che si traducono in un elenco di corsi di formazione frequentati e che non hanno nulla a che vedere con l’effettivo lavoro in classe.

Eppure, si badi, nell’ottica di una scuola di qualità, il lavoro in classe dovrebbe essere l’unico aspetto da valutare del lavoro del docente, e valutato non da un dirigente che passa il proprio tempo dietro una scrivania a lottare con i vari progetti europei per poter finanziare una scuola sempre più a corto di risorse, ma da un organismo qualificato a farlo, come, ad esempio, un serio corpo ispettivo del ministero.

In altre parole per il sistema Paese sarebbe molto importante sapere se e come un insegnante utilizza metodologie motivanti, che diano un senso allo studio, che alzino l’asticella.

Invece ci viene riproposta la solita storia del dirigente che premia i suoi più fedeli collaboratori e quelli che frequentano più corsi di aggiornamento, magari on-line, proposti da agenzie che su questo tema hanno fatto un vero e proprio “business”.

Certo, avere un serio sistema di valutazione del sistema scuola richiederebbe ben altri investimenti, e non è un caso che la Finlandia investa sulla scuola molto più di quello che investiamo noi italiani. Di investimenti “non se ne parla” ma la carenza di risorse non è un alibi per fare “politiche sbagliate”, che portano verso la distruzione di un sistema scuola.

Circa le carenze del “sistema scuola” italiano va ribadito che essa mantiene ancora un buon livello in termini di qualità della preparazione, come viene riconosciuto dal successo dei nostri circa 100.000 laureati che ogni anno si recano all’estero e vengono immediatamente assorbiti da sistemi che sanno, evidentemente, premiare il merito e le capacità più di quanto non facciamo nel nostro Paese.

Ovviamente i test standardizzati non possono rilevare questo fenomeno, in quanto rilevano i livelli di diffusione delle conoscenze di base, e, giustamente, mostrano le carenze in termini di analfabetismo funzionale e capacità di utilizzo della matematica. In sostanza questi test mostrano alcuni, gravi e importanti, aspetti critici, ma non sono in grado di rilevare gli aspetti di qualità che invece fanno della scuola italiana una scuola ancora degna di essere sostenuta, valorizzata, migliorata.

I test generalizzati non possono servire per valutare lo studente, né tanto meno il singolo docente, ma possono servire come elemento di ricerca per individuare problemi. Quindi va benissimo se OCSE ci informa che gli studenti italiani non capiscono ciò che leggono, ma poi da questo dato non deve discendere automaticamente che vanno premiate le scuole in cui il risultato del test è meglio delle altre, semmai, al contrario, si interviene potenziando le aree in cui ci sono problemi.

E va anche detto che la scuola italiana mantiene il suo più che decoroso livello nonostante abbia subito negli anni continui tagli alla spesa in relazione al PIL: si veda, nella tabella seguente, il confronto con gli altri paesi europei (relativa al solo periodo 2008-2015) e ci si chieda come mai la Finlandia abbia avuto negli ultimi dieci anni un incredibile miglioramento dei suoi risultati.

Solo il 2% del PIL in più, per l’Italia, significherebbe destinare ben 36 miliardi aggiuntivi alla scuola, che potrebbero portare alla riduzione/eliminazione del gap Sud/Nord; all’aumento del numero dei docenti, con conseguente eliminazione delle cosiddette “classi pollaio”; all’aumento delle compresenze e delle sperimentazioni di nuove metodologie, all’apertura delle scuole al pomeriggio, alla creazione di uffici per i docenti e alla creazione di nuovi e più moderni spazi per la didattica… tutte cose che nella puntata di “Presa Diretta” erano ben evidenziate ma che certamente non possono essere risolte dando la colpa ai “docenti che spendono i loro 500 euro annui per andare a teatro”.

In conclusione, ci spiace che il dibattito sulla scuola venga appiattito fra due posizioni: i “buoni dirigenti, politici e industriali” che vogliono cambiare la scuola contro i “cattivi” insegnanti che la vogliono riportare al 1923, alla riforma Gentile. La realtà non è questa: gli insegnanti vogliono una scuola di qualità, e questa non è ciò che si ottiene con politiche come quelle perseguite dalla legge 107/2015.

Riteniamo che Presa Diretta abbia fatto bene a riportare il tema della scuola di qualità all’attenzione della pubblica opinione. Adesso tocca alla politica far vedere che esistono diverse possibili risposte, ed uscire fuori dai luoghi comuni che hanno caratterizzato gli ultimi anni.

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