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Bufale: solo la scuola può essere un antidoto
Molti osservatori negli ultimi mesi hanno evidenziato il ruolo che avrebbero avuto le fake news, o le notizie false (per usare la nostra lingua) nell’elezione di Donald Trump alla carica di 45° presidente degli Stati Uniti. È stato spesso usato anche il termine “post-verità” (post-truth) per descrivere l’epoca in cui viviamo, nella quale i fatti oggettivi avrebbero meno importanza delle emozioni e delle credenze personali. Fra gli altri, in un articolo del 10 novembre 2016, Olivia Solon si chiedeva se Facebook non stesse in realtà polarizzando sempre di più il mondo anziché connetterlo come promette di fare, causando aspre divisioni. La giornalista del Guardian criticava l’algoritmo che stabilisce quali contenuti ogni utente deve vedere sul celebre social network. È un sistema che rischia di far vivere ognuno dentro la propria bolla, condivisa solo con persone dalle stesse idee sulla politica e sulla vita, in netta contrapposizione e con scarse occasioni di contatto con chi la pensa diversamente.
Che abbia o meno influenzato le elezioni della più grande democrazia del mondo, sicuramente questo è un fenomeno sul quale è necessario interrogarsi con serietà. Nonostante ciò alcuni hanno cominciato ad utilizzare il termine “fake news” a sproposito, per indicare notizie con le quali semplicemente non sono d’accordo, o fatti che risultano poco convenienti. Questo termine è presto diventato un jolly per uscire da qualsiasi discussione. Si è arrivati anche a parlare di “fatti alternativi”, a confermare la difficoltà che c’è oggi nel distinguere i fatti oggettivi, la loro interpretazione, le opinioni, e le notizie totalmente inventate. Queste parole sono diventate armi politiche nelle mani delle fazioni opposte, ognuna delle quali si considera sempre di più come unica detentrice della verità, tanto che adesso sembrano già aver perso qualsiasi senso ed è complesso affrontare ogni discorso in merito.
Come è ovvio le bufale sono sempre esistite anche sui media tradizionali e continuano ad esistere, ma è evidente che la loro proliferazione così massiva non sarebbe stata possibile senza la rete e i social media. Oggi chiunque può con estrema facilità veicolare delle notizie senza il bisogno di intermediari come editori o distributori. Difatti il flusso delle informazioni è diventato così imponente, così travolgente, che può condurre ad un vero e proprio sovraccarico cognitivo (information overload). Secondo Jonathan Spira, autore del libro Overload, questa è una terribile piaga della società moderna, che «ha causato nelle persone la perdita della capacità di gestire pensieri e idee, di riflettere, e anche di ragionare e pensare». È il paradosso di internet, in cui ogni risposta autorevole è potenzialmente alla portata di un click ma viene sommersa da un’enorme mole di rumore, in cui tutto è così veloce che verificare una fonte diventa uno spreco inutile di tempo prezioso.
D’altro canto, in molti casi, è improbabile che chi crede in una notizia falsa sia propenso a metterne in discussione la veridicità e, successivamente, a verificarla, per quanto possa essere minimo lo sforzo richiesto. Ormai numerosi studi, ad esempio quello di Allcott e Gentzkow sull’impatto dei social media sulle scorse elezioni americane, hanno dimostrato come le persone saranno più inclini a credere ad una notizia falsa se questa coincide con le proprie convinzioni personali. Inoltre, come è possibile leggere in due interessanti articoli di Barry Ritholtz su Bloomberg e di Elizabeth Kolbert sul The New Yorker, pare che il cervello umano trovi difficoltà estreme nel fare i conti con la realtà e che tutti noi siamo poco propensi ad ammettere i nostri errori. In questo contesto anche il lavoro di chi si sforza di confutare le notizie false, di smascherare gli inganni apportando ragionevoli motivazioni e dati attendibili, serve a poco. Questi arrivano per forza di cose sempre troppo tardi, senza raggiungere lontanamente l’enorme diffusione della bufala che vogliono confutare, e senza la possibilità di intaccare credenze già consolidate.
Chi pubblica notizie false, dunque, in modo più o meno consapevole, ricorre in gran parte all’utilizzo di stereotipi e pregiudizi, pensieri già largamente metabolizzati dalla mente che non richiedono un grande sforzo intellettivo per essere compresi. Lo scopo è quello di suscitare forti emozioni come indignazione, rabbia e odio, e di conseguenza produrre click facili e agevolare la diffusione a macchia d’olio della disinformazione. Senza dubbio è più faticoso interrogarsi sulle reali motivazioni di fenomeni che richiedono un vero e proprio studio per essere compresi poiché sono complessi e provocati da cause molteplici, come le migrazioni o la crisi economica, piuttosto che trovare delle risposte approssimative ed immediate, che individuano capri espiatori ben precisi ed identificabili.
In questo contesto, indipendentemente da quali siano le proprie idee sulla politica, sull’economia o sulla società, si rischia davvero di perdere il senso della realtà. Si rischia di vivere in un mondo parallelo senza alcuna aderenza al reale, fatto solo di una percezione condivisa da tanti che hanno le stesse convinzioni e basata solo su emozioni e sensazioni.
Trovare delle soluzioni sembra allora molto complicato, e quelle che in questi mesi sono state avanzate, basate per lo più sulla rimozione dei contenuti incriminati, appaiono di dubbia efficacia. C’è il pericolo anzi di provocare l’effetto opposto: di alimentare la psicosi del complotto, già largamente diffusa, o di inoltrarsi su un terreno scivoloso che può condurre alla censura e alla limitazione della libertà su internet.
La strada giusta da seguire, invece, è senza dubbio quella dell’educazione, pur essendo un percorso che produrrà risultati solo a lungo termine, e questa strada deve per forza partire dalla Scuola.
Gli studenti di oggi, i nativi digitali, che conoscono più da vicino internet, dovrebbero essere in grado, secondo il sentire comune, di evitare facilmente le trappole che offre la rete. Purtroppo non è così. Secondo uno studio dell’Università di Stanford molti giovani delle scuole di ogni grado non riescono a distinguere una notizia vera da una falsa, o una pubblicità da un contenuto di informazione. E non c’è da stupirsi; è ingenuo pensare che l’uso consapevole della tecnologia sia una capacità innata o conseguente alla sola familiarità con i dispositivi elettronici fin dall’infanzia.
Andreas Schleicher, direttore per l’istruzione e le competenze dell’OECD, ha evidenziato l’importanza di insegnare agli studenti come riconoscere le notizie false. Negli USA esistono già esperienze che vanno in questa direzione; una su tutte è quella di The News Literacy Project, organizzazione che ha lo scopo di insegnare agli studenti come distinguere i fatti dalla finzione nell’era digitale e come sopravvivere nella selva odierna delle informazioni.
Solo la Scuola può essere l’antidoto contro la disinformazione, sia sul web che sui media tradizionali, e non è sufficiente avviare percorsi di alfabetizzazione digitale. Bisogna soprattutto sviluppare negli studenti il senso critico, la curiosità, il dubbio, la volontà di scoprire la verità.
La Scuola deve allenare gli studenti a mettere in discussione le proprie convinzioni anche se è faticoso, perché da questo dipende il futuro della nostra sempre più bistrattata democrazia, la cui sopravvivenza si trova in un equilibrio delicato, in cui la capacità dei cittadini di informarsi, e sulla base di quelle informazioni fare delle scelte, è un elemento fondamentale.
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